Sullo sfondo delle tensioni di queste ore in Catalogna ci sono diverse questioni: la crisi dello Stato-nazione, il successo a metà del regionalismo europeo e la solidarietà fiscale delle regioni più ricche verso il resto del Paese. Insomma, tutto il mondo è Paese in questo scontro di civiltà che parla allo stesso tempo la lingua occitana, il dialetto scozzese, ma anche quello bavarese e il linguaggio ruvido del Bossi della prima ora.
L’idea di regionalismo e l’idea di Stati-nazione depotenziati fa d’altr parte delle fondamenta stesse del concetto d’Europa. Questa è anche una delle ragioni per cui il referendum catalano non è vissuto con grande timore dai mercati internazionali o comunque è visto come una vicenda puramente locale. Da una parte esiste la convinzione, che sembra piuttosto fondata, che il governo di Madrid e il Re non lasceranno dichiarare l’indipendenza alla porzione più benestante e ricca del territorio nazionale. Dall’altra esiste una chiara volontà della popolazione di conseguire l’autonomia. Se la crisi dovesse essere portata alle estreme conseguenze, alla fine prevarrà la volontà della parte tra le due che sarà in grado di mobilitare, esercitare o almeno dispiegare maggiormente la forza. Questa parte dovrebbe essere lo Stato centrale, che anche nell’epoca della globalizzazione della forza dovrebbe aver mantenuto il monopolio. Ma ancora per quanto?
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Le prospettive dell’integrazione europea
Proprio in settimana Emmanuel Macron, dalla cattedra della Sorbona, ha pronunciato il suo discorso programmatico per rilanciare il progetto europeo. La tempistica certamente non è casuale, con le urne tedesche appena chiuse, Macron ha presentato i suoi ambiziosi programmi per rilanciare l’integrazione. Nel suo discorso, sicuramente il più esplicitamente europeista che si ricordi negli ultimi anni da un capo di governo europeo, Macron ha parlato di difesa comune, di una tassazione (sulle aziende) e di una politica economica comune, ma anche di università e di diritto di asilo.
La storia dell’Unione Europea ci mostra molto chiaramente come periodi di crescita economica siano stati di solito favorevoli al progresso di integrazione. La logica suggerirebbe che, con tutti gli indicatori economici in netto miglioramento e lo scoglio elettorale in Francia e in Germania alle spalle, si apra una finestra per porre rimedio a tutte le fragilità che l’Ue ha dimostrato di avere in questi lunghi anni di crisi. Il risultato delle elezioni tedesche, però, ha ricordato ancora una volta che esiste una larga parte della popolazione che non si trova sulla stessa rotta dei governi e che oppone la sfida identitaria all’integrazione sovranazionale.
Tutti questi eventi servono a ricordare agli investitori e a chi elabora strategie di investimento a lungo termine, che ci troviamo in un periodo complesso, in cui il rischio politico nel contesto europeo non si limita al momento elettorale e può assumere molte forme, spesso controverse. In questo senso il processo di integrazione è intrinsecamente viziato da alcuni problemi strutturali, destinati a ripresentarsi ciclicamente nei prossimi anni (sarà da vedere con che intensità). L’ottimista, però, potrebbe argomentare che il fatto che l’Unione stessa sia ancora in piedi dopo la crisi economica più grande del Dopoguerra rappresenti una prova di resilienza non indifferente, che permette di guardare con fiducia all’orizzonte, mentre i ghiacci si sciolgono e il sole ricaccia le ombre sotto le chiome degli alberi.