Casa e famìgghia scànzanu timpesta, l`omu scumpari e la famigghia resta*.
Il caso dell’ex sottosegretario Rossi denunciato dalle Iene, che ha portato a scoperchiare il vaso di Pandora dello sfruttamento dei collaboratori parlamentari, ci racconta molto più di un trattato di sociologia del familismo amorale della nostra Italia. Dell’incapacità dell’italiano di avvertire il primato del pubblico sul privato e della sua cocciuta tendenza ad anteporre i fatti propri su tutto e tutti. Dopo il clamore, infatti, Rossi ha pensato bene di invocare familistica complicità così: “25 ore di viaggio e una settimana di gogna mediatica, sogno una doccia e di riabbracciare mia moglie e i miei figli. Non capisco tutto questo accanimento su di me. Avere un figlio disoccupato e un altro con un contratto precario a 450 euro al mese a 33 anni: sarebbe questo lo scandalo?”. Rossi, cioè, punta al “tengo famiglia”.
Ovviamente, egli sa che un padre “normale” non avrebbe potuto orchestrare un simile inganno, ma sa anche che, in Italia, quel padre, se avesse potuto, lo avrebbe fatto. Il “tengo famiglia” unisce tutti, destra e sinistra, Nord e Sud. Il peso, perverso, della rete familiare negli affari pubblici in Italia è questione antica e dibattuta. Sisto IV della Rovere appoggiò la Congiura dei Pazzi nella Firenze del Quattrocento per assecondare le ambizioni dei suoi nipoti, negli stessi anni in cui Guicciardini analizzava l’importanza del “particulare” nella vita politica; Alessandro VI Borgia fece cardinale suo figlio, il Valentino, e la pratica di favorire i famigli era così radicata che già il Concilio di Trento doveva stabilire che ai parenti di Sua Santità non potesse andare più di un Vescovado; lasciando aperta però la porta delle abbazie, che si riempivano di raccomandati.
Nel Dopoguerra, fioriscono le analisi sul ruolo dei legami di sangue e delle cerchie nella politica italiana: come il seminale “Clientela e parentela”, storia politica d’Italia dell’americano Joseph LaPalombara, che si ispirava ai celebri studi di Edward Banfield sul familismo amorale. Quella mentalità, fra l’altro, sarebbe la stessa che anima i mafiosi; da questo punto di vista, fra la corruzione delle élites borghesi e i crimini di Cosa Nostra ci sarebbero solo differenze di scala. La stesso ruolo dello Stato a protezione o garanzia degli affari mafiosi, e dunque il ruolo della corruzione borghese nella sedimentazione della violenza mafiosa, proverebbero questa identità di ethos. Una denuncia che traspariva già in inchieste parlamentari come quella Saredo e Sonnino-Franchetti.
in Italia, la situazione è patologica, e non lascia spazio ad aspetti positivi. La verità è che il sistema regge perché è praticato da chiunque. Dalle professioni liberali all’Università, riguardo alle quali il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha chiaramente messo in relazione la fuga dei cervelli con le cattedre assegnate ai congiunti.
È dunque questione di mentalità? Perché “così si ragiona al paese mio”, come diceva alle Iene l’onorevole Caruso? Sì e no. La mentalità si impone a partire da cause materiali, ma di certo opera anche quando cambiano le condizioni che l’hanno generata. Paradossalmente, il nepotismo nasce nell’alveo della Chiesa, come strumento di distribuzione democratico delle risorse. A differenza delle monarchie ereditarie, a Roma poteva diventare papa chiunque, anche un “guardiano dei porci”, come con sprezzo Alessandro Farnese bollò Sisto V, campione di clientelismo. Sisto V, con la sua malagestio, distribuiva però un po’ di risorse ai suoi scalcagnati parenti delle Marche, periferia dell’Impero papalino.
Allo stesso modo, la corruzione del Partito Democratico americano negli anni ‘20, quando il voto di scambio con i migranti italiani era all’ordine del giorno, significò coinvolgere nella vita del Paese anche delle fasce di popolazione prima escluse per censo. Ovviamente, in Italia, la situazione è patologica, e non lascia spazio ad aspetti positivi. La verità è che il sistema regge perché è praticato da chiunque. Dalle professioni liberali all’Università, riguardo alle quali il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone ha chiaramente messo in relazione la fuga dei cervelli con le cattedre assegnate ai congiunti.
Mentre riecheggiano ancora le intercettazioni dei professori di Firenze accusati di pilotare i concorsi, val la pena ricordare che studiosi come Boeri, Perotti o Allesina hanno anche individuato prove statistiche di ricorrenze di certi cognomi negli atenei italiani: i famigerati baroni. Ma il problema, per l’appunto, non riguarda questo o quel comparto, ma più o meno tutti i settori dove ci sono denari pubblici in gioco o barriere d’ingresso alla professione, al punto da potersi permettere il lusso di parcheggiare un nipote deficiente rispetto alla necessità di assumere un estraneo efficiente.
Incentivi al merito che solo il mercato potrebbe indurre, perchè il costo del clientelismo, cioè il protezionismo a favore dei cretini, ha dei costi che paghiamo tutti. Così, i tentativi di bloccare le liberalizzazioni non fanno altro che portare acqua al mulino dei figli di papà. E il merito va a farsi benedire.
Caso diverso è la politica. Qui non ci sono mercati da invocare, visto che il mercimonio di voti con le preferenze ha prodotto i mostri che ben conosciamo. Servirebbero, invece, i partiti, per far selezione di classe dirigente. Cosa ancora più facile, oggi, con le liste bloccate. Ma fra cerchi magici e sacri blog prevale la cooptazione delle igieniste dentali, senza arte né parte, e che resteranno nei secoli fedeli al caro leader, che li salva da una vita di anonimato.
* Ignazio Buttitta