Portare a letto la ragazza più brutta, la nuova moda infame dei Millennials

Si chiama ”Pull a pig”, il gioco consiste nell’abbordare, sedurre e deflorare la ragazza più brutta e più grassa della serata. Ma i giochi stupidi ci sono sempre stati, ora hanno nomi più cool. Ogni generazione pensa di essere migliore della precedente

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I giovani contemporeanei hanno un nuovo gioco col quale dilettarsi, pare. Si chiama “Pull a pig” e consiste nell’abbordare, sedurre, deflorare, la ragazza più brutta e più grassa della serata. Dopodiché, umiliarla, dicendole che è stata vittima di uno scherzo: si trattava solo di un gioco, una dimostrazione di potere, una bischerata. Bischerata nella quale la vittima ci rimette una bella porzione di fiducia nel genere umano (specificatamente maschile) e abbondanti razioni di autostima. Per non parlare di tutti i passi indietro che fa, in un colpo solo, in quel delicatissimo processo di accettazione di sé. Perché, sia chiaro, amarsi, farlo realmente, al di là dei proclami sui social, è difficile. Amarsi, conoscersi, tutelarsi. È difficile sempre, è difficile per tutti, ed è tanto più difficile, nel nostro contesto socio-culturale, per una ragazza in sovrappeso, a cui magari il signore Iddio ha pure dato in dotazione dei lineamenti non particolarmente aggraziati, un portamento un po’ da camionista, una stazza da cisterna condominiale, un naso di quelli che dovrebbero essere dichiarati alla dogana. Insomma, brutte storie più che brutte ragazze.

Pochi mesi fa, s’era fatto un gran parlare della Blue Whale, altro presunto passatempo di questi giovani contemporanei, privi di valori, crudeli, apatici, incomprensibili, depressi. Alla fine della fiera non s’è capito se la vicenda Blue Whale avesse un fondamento o se fosse una notizia creata ad arte, assai gustosa per i media e per gli adulti, liberi di dondolarsi nella convinzione intramontabile e cross-generazionale di essere migliori delle generazioni successive. Questi fenomeni, veri o falsi che siano, hanno dei nomi precisi (anglofoni, così sembrano più nuovi e più contemporanei), risvegliano la nostra indignazione e la nostra apprensione, entrano nell’immaginario collettivo, ci persuadono della distanza che c’è tra noi — adulti — e loro — giovani d’oggi.

Come se vivessimo in una sorta di segregazione generazionale: baby-boomer, X, Y, millennials, Z. Gruppi antropologici impossibilitati a comunicare e a comprendersi tra loro. E se il dialogo tra le generazioni è sempre stato complesso (non è che i primi capelli lunghi maschili, o le prime minigonne, o le droghe lisergiche, o la pratica del sesso libero, fossero accettati tanto di buon grado negli anni ’60), adesso la distanza appare insanabile poiché — al classico gap generazionale — s’è aggiunto l’acceleratore tecnologico, che ha mutato geneticamente alcune dinamiche sociali, che ha creato una nuova lingua e con essa nuove regole, nuovi schemi, nuove insidie da scoprire, da capire e da prevenire. E fin qui ci siamo. Però, c’è un però.

C’è che qualunque generazione è stata tacciata di essere moralmente dissoluta rispetto alle precedenti. C’è che il bullismo è esistito sempre. C’è che il giullare di corte, lo scemo del villaggio, la donna dai facili costumi, l’uomo debole, il femminiello, il ciccione, il nano, il ritardato, la strega, il gobbo di Notre Dame, tutto questo ha fatto sempre parte della società. Era bello? No. Era nobile? No. Dobbiamo assistere inermi al perpetramento di ingiustizie e luoghi comuni? Certo che no.

C’è che qualunque generazione è stata tacciata di essere moralmente dissoluta rispetto alle precedenti. C’è che il bullismo è esistito sempre. C’è che il giullare di corte, lo scemo del villaggio, la donna dai facili costumi, l’uomo debole, il femminiello, il ciccione, il nano, il ritardato, la strega, il gobbo di Notre Dame, tutto questo ha fatto sempre parte della società. Era bello? No. Era nobile? No. Dobbiamo assistere inermi al perpetramento di ingiustizie e luoghi comuni? Certo che no.

Però non trattare i giovani come fossero alieni, come se fossero gli artefici primi di queste storture, sarebbe un passo avanti. Assumersi la responsabilità di averli educati o di averli diseducati, questi giovani, mi sembra necessario. Di più: mi sembra urgente. E invece l’impressione è che si emettano sempre più rapidamente sentenze popolari a suon di like, e che si indaghino sempre meno le cause di questi eventi. Questo, oltre a essere inutile, è persino dannoso perché alimenta un antagonismo dialettico, di genere e di generazione, che inasprisce ancora di più le possibilità di comunicazione.

Eppure non è difficile: io ho 31 anni e sono una millennial. Sono vecchia, per essere una millennial, e infatti mi considero cuspide, un ibrido generazionale, una Yllennial. Però ricordo chiaramente che quando gli adulti imputavano delle colpe alla mia generazione, rispondevo senza esitazione: “La colpa è vostra”. E oggi, 15 anni dopo, non la penso diversamente.

In quale contesto culturale, sociale e affettivo sono cresciuti i millennial? Proviamo a pensarci:

  1. La bellezza è un valore? Certo che sì. Non siamo forse cresciuti con le tette e i culi in prima pagina? Con la cena accompagnata dagli stacchetti di veline, schedine, vallette e letterine? Non abbiamo forse guardato Non è la Rai? E Miss Italia? E Colpo Grosso con Umberto Smaila? E se Rihanna diventa una taglia 46, la notizia non fa forse il giro del mondo? E se Chiara Ferragni c’ha un filo di pancia, non è forse incinta? E la tipa che mette gli shorts e non se li può permettere perché ha un poco di ritenzione idrica? E le gallery con il prima e il dopo? E quelle che invecchiano? E quelle che si rifanno talmente tanto pur di non invecchiare, ma poi finisce che comunque invecchiano e son brutte uguale, anzi di più, perché “sono irriconoscibili”? E quelle che c’hanno 20 anni e sono giovani, e pure belle, ma si rifanno lo stesso perché devono approssimarsi a un certo canone di bellezza (cioè diventare copie-carbone di Belen Rodriguez)? Voglio dire, a che livello ci stupisce che un eunuco di 20 anni bullizzi una tipa perché la considera brutta, se la società intera pone come prima unità di misura del valore femminile l’avvenenza, l’appetibilità sessuale, la bellezza?
  2. Il sesso è formalmente libero? Sì, vivaddio. In teoria sì, in questa nostra parte di mondo perlomeno. Il problema è che a volte per usare la libertà in maniera sana, serve consapevolezza. E quella richiede tempo, impegno, a volte persino guida e istruzioni per l’uso. Altrimenti è come dare le chiavi di una Ferrari a un neopatentato. Si divertirà un casino, ma forse si sfracellerà.
  3. Questi g-g-g-giovani, non sono forse stati educati a una visione aziendale della vita? Alle sfide da vincere, alla competizione più che alla collaborazione, all’individualismo, al narcisismo, alla convinzione di poter realizzare i propri sogni e poter ottenere tutto ciò che vogliono? Non sono forse la generazione “I can”? Non sono forse figli di una classe genitoriale che ha disconosciuto l’insuccesso e le debolezze, e l’aiuto, offerto e ricevuto?
  4. E cosa succede, quando quella generazione si accorge che “cannot”? Cosa succede quando quella generazione, che negli anni più delicati della sua formazione ha incamerato aspettative altissime per se stessa, s’accorge all’improvviso che non è poi questo granché, ciò che l’attende? Niente banchetti lussureggianti, niente folgoranti carriere rimpinzate di benefits e status symbol, niente avvincenti opportunità di lasciare un segno nel mondo, di essere SPECIALI. Eravamo e siamo persone qualsiasi che sono diventate (o si accingono a diventare) adulte in un periodo storico neppure particolarmente florido: privo di lavoro, di certezze, di ideologie, di riferimenti culturali forti e pure di risorse energetiche. Non stiamo peggio di quelli che nei secoli scorsi crepavano a 15 anni di acne, questo è ovvio. Ma è vero pure che a quelli nessuno aveva raccontato che sarebbero stati immortali. Mentre a noi, tutto il contesto nel quale siamo cresciuti ha raccontato che eravamo unici, che saremmo stati liberi, che saremmo stati indipendenti, che avremmo fatto grandi cose. Non poterle fare, non riuscire a farle, non essere eccellenti, non aver avuto l’idea geniale perché scusateci non siamo tutti Mark Zuckerberg e non avere neppure il tessuto sociale e affettivo che — nel bene e nel male — hanno avuto alcune delle generazioni che ci hanno preceduti, tutto questo ha contribuito a creare grossi problemi di autostima (problemi che, in forma germinale, si possono riscontrare già nella generazione Y). E, questo si capisce facilmente, la scarsa autostima, l’incapacità di accettare i propri limiti e di elaborare i propri fallimenti, di rado genera esiti positivi sul piano sociale.
  5. Ultimo e non meno importante: i millennial non sono forse la generazione dell’immediatezza? Anzi, dell’istantaneità? Relazioni, amicizie, cibo a domicilio, e-commerce, asos, yoox, tinder, netflix. Forse, ai tempi, aspettare la puntata SETTIMANALE della nostra serie preferita, dava VALORE a quella puntata. Forse, ai tempi, quell’impaccio, quei dubbi, quel gli-piaccio-o-non-gli-piaccio, che prevedeva una conoscenza, un balletto di umanità più o meno lungo, un rischio, un gioco personale, uno sforzo cognitivo superiore allo swipe del pollice sulla schermata di una dating app, ecco forse anche quello dava VALORE alle relazioni. E quindi si stava meglio prima? No, è comodo Amazon cazzo. E pure Netflix. E certe volte pure Tinder. Eravamo persone migliori prima? Non saprei. Fatto sta che se tutte queste cose sono per te normali, se ci sei nato e se ci sei cresciuto in questo ambiente culturale, ciò ha influito sulla tua crescita. Il contesto ha avuto un ruolo e — possiamo azzardare — non ti ha allenato alla pazienza, alla lentezza, alla profondità, all’approfondimento, all’empatia.

Morale: questo “Pull a Pig” è da stronzi? Certo che lo è. Questi giochi non sono mai esistiti prima? Probabilmente sì. Qual è la differenza? Che adesso, ogni volta, hanno un nome appealing, efficace in termini di marketing, eccellente anche come hashtag.

Ciò che non è cambiato, invece, è che non si prova mai abbastanza a capire le cause e le istanze dei giovani, limitandosi quasi sempre alla condanna delle conseguenze. E, subito dopo, al sollievo rincuorante del “noi però eravamo meglio”, mentre in realtà, qualunque bruttura nei giovani è merito o colpa di chi dei giovani s’é occupato, o non s’è occupato abbastanza: di aiutarli, di educarli, di comprenderli, di tutelarli, di instradarli.

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