L’idea è quella di voler chiudere un ciclo. Ma non è detto che le elezioni catalane previste per oggi riusciranno a farlo. Secondo i pronostici probabilmente saranno necessarie ancora altre votazioni per cercare di trovare una quadra. Frattanto sette candidati si contendono lo scettro, il vincente potrebbe essere lo sconfitto e viceversa. Perfino il quinto classificato rischia di sedere sul trono della Generalitat.
Sono i paradossi degli ultimi istanti di una campagna elettorale polarizzata, dove gli anticapitalisti della CUP e il partito popolare del governo centrale hanno il ruolo di comparsa, mentre gli unionisti di Ciudadanos e i separatisti di Esquerra Repubblicana, da fieri animali politici, si sbranano a vicenda. Se non fosse una dramma o (ad essere meno grevi) una tragicommedia, questa pagina politica apparterebbe più al genere epico. In primis c’è l’ex (o no) presidente Carles Puigdemont, alla testa della lista Junt per Catalunya, che da Bruxelles chiude la sua campagna elettorale, inscatolato in un’enorme tv al plasma. Non più fuggiasco né deportato. Dopo il ritiro dell’ordine di cattura europeo, Puigdemont (è ben precisarlo) è solo un turista, costretto da un hidalgo tribunale di Madrid ad un esilio forzoso. Uno status insopportabile per chi dice di sentirsi indipendentista di razza, sangue e suolo. E di essere pronto a tutto pur di liberare la Catalogna dal gioco iberico ed europeo, senza dubbio. Perché anche l’Europa, dopo averla visitata a sorpresa, gli ha chiuso malamente la porta in faccia. Da profeta ribelle è riuscito a inoculare nel suo gregge uno stato di rapimento sentimentale e di amnesia che gli permette di sopravvivere come eroe alla fuga rocambolesca dello scorso 30 ottobre. Di venerdì dichiarava la repubblica, di lunedì fuggiva dalla stessa, trovando conforto tra le fronde boschive dei Paesi Bassi, dove ancora oggi suole concedere interviste e fare lunghe passeggiate, con le braccia dietro la schiena, in posa da martire, cercando un’epifania che ponga fine alla sofferenza del suo popolo.
A star peggio è senz’altro il suo ex (o no) vice Oriol Junqueras. Il leader di Esquerra repubblicana scrive missive dal carcere di Estremera. Si dipinge come un buon padre di famiglia, un uomo pulito, candido, un accademico appassionato. Ha chiesto alla giudice Carmen Lamela la libertà condizionale per poter partecipare alla campagna elettorale, ma la rediviva isituzione della Santa inquisizione ha negato qualsiasi misericordia. Così l’eretico Oriol ha unto con olio sacro Marta Rovira, la segretaria del partito, nominata come eventuale candidata alla presidenza della Generalitat, se il destino di Junqueras lo vorrà ancora in penitenza tra le sbarre. Rovira viene dalle campagne catalane, è l’allegoria della purezza, spesso sopraffatta dalla cattiveria dell’urbe. Ogni volta che nel partito accade un contrattempo la candidata di Erc ha i lucciconi agli occhi. L’ultima volta quando Puigdemont era sul punto di convocare le elezioni e gettare la spugna, alludendo ad un possibile “bagno di sangue” dello Stato oppressore.
L’unzione sembra aver convinto i fedeli di Erc (dati circa al 23%) che potrebbero contendere la corona a doña Inés Arrimadas, la Giovanna d’Arco catalana. È lei la preferita dai catalani, secondo gli ultimi sondaggi, e chissà anche da Dio. La pulzella di Jerez de la Frontera, a capo del movimento arancione di Ciudadanos, è giovane, bella, solare. Folgorata dalle parole del suo leader Albert Rivera, tempo fa decise di lasciare la sua profonda Andalusia per salvare la sua nuova patria: la Catalogna. Anche se l’ex presidente della Camera Nuria de Gispert le suggeriva di tornarsene al suo paese. L’ostilità agli stranieri d’altronde è stata sempre palpabile tra gli indipendentisti. E l’Andalusia, per la politica catalana, è simbolo di una terra remota ed esotica. L’immagine di doña Inés a Jerez de la Frontera, da sempre terra d’arte equestre, in groppa ad un cavallo cartujano di pura razza, come controfigura di un’amazzone, è ancora viva in Parlamento. È l’incarnazione malvagia ed enciclopedica della maledetta idiosincrasia che abita l’altra sponda: urbana, capitalista, cosmopolita, ‘fighetta’, europea, persino liberale. Una sottomarca del PP, più per carnagione che per ideologia, ma che sa convincere e convince. La prova della sua bravura politica sta tutta in famiglia: il marito, Xavier Cima, un nazionalista catalano ex deputato di Convergencia Democratica, oggi voterà per lei. E ora anche il leader Albert Rivera ha bisogno del sorriso fiero di doña Inés per addolcire la sua immagine da delfino della destra spagnola.
Sul fronte unionista, a competere contro la pulzella andalusa c’è poi Miquel Iceta, candidato alla carica di presidente della Generalitat per il partito socialista catalano. Bassino, grossetto, pelato, dai detrattori soprannominato “l’orsacchiotto”, Iceta è l’epigono catalano di François Hollande, per aspetto, ideologia e carisma. In realtà è l’amico che tutte le mamme vorrebbero avere per le proprie figlie: è simpatico, porta gli occhiali, ama ballare, è gay e propenso a trovare sempre un dialogo costruttivo. La sua visione di un mondo tollerante lo ha portato a chiedere l’indulto per chi ha infranto le leggi, facendo infuriare perfino i suoi colleghi di partito. Opportunismo o ingenuità? Ad ogni modo si presenta come l’unico candidato capace di portare al Parlament il ramoscello d’ulivo. E magari riuscire a strappare 4 o 5 seggi agli avversari del partito popolare. D’altronde Xavier García Albiol è il peggior candidato che il centrodestra potesse scegliere. È il classico buttafuori dei locali, il macho iberico che intimidisce con le parole e con il fisico da ex cestista. Due metri d’altezza per quasi 100 chili, Albiol ha cinquant’anni, è padre di due gemelli, ha una barca ancorata al porto di Barcellona, segno di una vita dedicata più allo sport che alla politica. Secondo i sondaggi è l’ultimo in classifica per gradimento. D’altronde non è facile fare le veci di Mariano Rajoy in Catalogna. Tanto più se chiudi la tua campagna elettorale con un “A por ellos”, riferendoti agli indipendentisti. Come a dire “Andiamoli a menare”.
Gli ultimi due nomi dei sette sono Xavier Doménech per Catalunya en Comú, la sottomarca di Podemos, e Carles Riera della Cup. In pratica due sconosciuti fuori dalla Catalogna e forse perfino dentro la stessa comunità. Se da una parte Podemos continua a perdere voti per la sua continua e ambigua posizione nella giostra del sì o no all’indipendenza, la formazione stalinista-rivoluzionaria corre il rischio di consumarsi come una qualsiasi moda passeggera. Toccava pur fare una lista, e questo è quanto. I due forse diventeranno più incisivi (o decisivi) dopo, chissà. Comunque vada, bisognerà aspettare che la stella cometa illumini anche Barcellona per sapere chi tra i candidati siederà alla fine sul trono della Generalitat.