Nel saggio “On the standard of taste”, pubblicato nel 1752, il filosofo scozzese David Hume scrive che la bellezza non è una qualità delle cose in sé, ma che esiste solamente nella mente di chi la contempla, e ogni mente percepisce la bellezza in modo diverso. «Beauty is in the eye of the beholder», ovvero la bellezza è negli occhi dell’osservatore”, avrebbe riassunto qualche decennio dopo, esattamente nel 1878, la scrittrice irlandese Margaret Wolfe Hungerford in una delle sue novelle.
Se oggi questa frase e le sue ricorrenze — che nel frattempo sono diventate altre mille, per esempio sostituendo “bellezza” con “malizia” — ci tornano utili è per commentare una polemica che la settimana scorsa ha coinvolto, attraverso prima i social network e poi la stampa di tutto il mondo, la catena di grandi magazzini svedese H&M, finita alla gogna con l’accusa di razzismo per una pubblicità che ritraeva in posa un bambino di origine kenyota che vive con la famiglia a Stoccolma con addosso una felpa con scritta la frase “the coolest monkey in the jungle”.
Cosa c’entra un filosofo empirista radicale vissuto nel 18esimo secolo con una polemica sa social network di quasi quattro secoli dopo? C’entra, perché quella stessa frase la potremmo pronunciare noi di fronte alla roboante polemica che ne è seguita e che prima ha portato alle scuse ufficiali del colosso dell’abbigliamento in questione, e poi, dopo poche ore, addirittura all’assalto da parte di manifestanti inferociti di alcuni dei negozi di H&M in Sudafrica.
Ma si può affermare senza timore di essere accusati a propria volta di razzismo che “il razzismo esiste solo nella mente di chi guarda” e che quella foto che ritrae il bambino che indossa la felpa verde oggetto della polemica, è razzista in sé? La risposta non è banale, ma è interessante cercarla, perché è proprio cercandola e facendoci altre domande che capiamo quanto abbiamo perso il bandolo della matassa e quanto questo tipo di polemiche siano in buona sostanza sempre e solo delle sanguinose crociate contro delle povere dita quando è la luna che ci sta precipitando sulla testa.
La risposta è no, quella felpa non è razzista, non in se stessa, quantomeno. E questo perché, se lo fosse, allora dovrebbe essere razzista indipendentemente dal soggetto a cui è associata. Ma non lo è, e sapete da cosa ce ne accorgiamo? Semplice, perché se fosse stata indossata da un bambino bianco nessuno si sarebbe offeso.
Qui arriviamo al cuore del problema e alla risposta, che è tutto sommato semplice, alla domanda che ci viene spontanea di fronte a questa semplice verità: perché se fosse stata indossata da un bambino bianco non sarebbe successo nulla? Perché siamo noi ad essere razzisti.
Certo, sarebbe stato tutto molto più comodo che i cattivoni fossero stati solo ed esclusivamente quelli di H&M, ma non è così. È l’immaginario occidentale, il nostro immaginario, ad essere ancora razzista, così come sessista e omofobo. E se continua ad esserlo è anche perché non siamo ancora arrivati alla lucidità necessaria per capire che ciò che malediciamo, che stigmatizziamo e su cui sfoghiamo la nostra indignazione è il bersaglio sbagliato.
Ma se è il nostro immaginario ad essere razzista, se, insomma, siamo razzisti dentro, come sarà mai possibile estirpare questo delirio dalla nostra società? Forse la risposta è in un altro aneddoto, sempre riferito a dei bambini, e che ho sentito (o letto? non ricordo) abbastanza di recente.
L’aneddoto, per come lo ricordo, racconta di una bambina dell’asilo e di una fotografia che raffigura lei con alcune sue compagne di classe tra le quali anche la sua migliore amica, l’unica bambina di colore della foto. Eppure quella immagine non è univoca, bensì, un po’ come la bellezza di Hume e il razzismo di H&M, dipende dall’occhio di chi la guarda. Se infatti chiedete ai genitori di indicare chi è la migliore amica della loro figlioletta, questi vi risponderanno “la bambina di colore, proprio affianco a lei”. Se invece la stessa domanda la rivolgete alla figlia, la bambina in questione, chiedendole di dirvi chi sia la sua migliore amica, questa vi risponderà con molto candore: “quella con il vestito giallo”.
Non a caso, il migliore commento a questa grottesca vicenda è proprio quello della madre del piccolo modello che, dopo l’esplosione del caso, è intervenuta su Facebook definendolo, a quanto riporta il New York Times, una “polemica inutile” e aggiungendo che quella felpa “era solo uno delle decine se non centinaia di capi che suo figlio aveva indossato”. Insomma, il razzismo, come quasi tutte le più volgari deformazioni dell’animo umano, è dentro di noi ed è esattamente lì che dobbiamo andarlo a scovare e ucciderlo, senza pietà. Anche se ci sembra decisamente più comodo che la colpa sia di quei cattivoni di H&M, che però forse andrebbero sorvegliati di più sulle modalità e sui luoghi di produzioni dei capi che producono, piuttosto che su una stupida felpa.