Il problema forse è la parola, “disabile”, che implica la mancanza di abilità, di capacità. Quando forse è davvero più precisa la locuzione “diversamente abile”: sempre abile, sì, con limiti che in qualche caso diventano una forza.
Prendiamo il caso più famoso di tutti: Helen Keller, sordocieca fin dalla più tenera età. Nata alla fine dell’800 nell’Alabama, sarebbe forse rimasta nelle tenebre e nel silenzio tutta la vita, se la sua famiglia – ricca, bene inserita – non fosse stata in contatto con Alexander Graham Bell (per chi non lo sapesse: il primo a brevettare il telefono), o non avesse potuto pagare un’istitutrice a tempo pieno, Annie Sullivan. Sullivan – anche lei ipovedente; anche lei, a suo modo, una supereroina – insegnò a Helen la comunicazione tramite un alfabeto speciale, fatto di segni con le dita nel palmo della mano. Nella sua autobiografia, Helen racconta di aver compreso il concetto di “parola” toccando l’acqua, e riconoscendo in quella sensazione il vocabolo appreso prima di perdere vista e udito. Quel “wa-wa” riemerso dalle nebbie della memoria l’avrebbe portata poi a iscriversi alla Radcliffe, a entrare in contatto con alcuni dei più importanti intellettuali dell’epoca, e infine a fondare la ACLU, l’American Civil Liberties Union, e a diventare un’attivista per i diritti dei disabili. O diversamente abili, fate voi.
Helen Keller aveva le mani, Christy Brown un piede, uno solo, il sinistro: affetto da paralisi cerebrale, Christy non aveva alcun controllo sul suo corpo, a parte quell’unico arto: con quello imparò a scrivere e a dipingere, e diventò un romanziere e un artista di fama. Sulla sua storia, come su quella di Helen, è stato fatto un film. Entrambi – Anna dei miracoli e Il mio piede sinistro – sono da vedere e rivedere, non solo per motivarsi, ma anche perché contengono alcune fra le migliori prove d’attori di sempre.
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