C’è stato un periodo nel quale alcuni uccellini, in realtà poi sempre gli stessi, venivano sul balcone di casa mia per bere l’acqua, la mattina presto, dalla ciotola del mio cane. Ogni mattina svegliarsi alle 5.30 era meno pesante, guardarli bere dalla ciotola, o semplicemente saltellare sul balcone, nel centro di una città, dove la cosa più colorata era un palo della luce, creava una situazione di tranquillità per la quale queste parole, su quei giorni, sembrano più leggere anche grazie a quegli uccellini.
Diversi mesi dopo quei giorni mi è capitato di leggere un libro costruito con un’attenzione e una capacità di costruire una narrazione veramente rare. Ogni cosa nella trama era esattamente dove sarebbe dovuta essere, se l’avessi letta due pagine dopo probabilmente tutta la tensione letteraria si sarebbe sgonfiata. Il libro è Una storia Nera di Antonella Lattanzi. Ma la cosa che mi colpì di più del libro fu la presenza ricorrente di alcuni uccelli. Ogni volta che venivano citati gli uccelli, ero in grado di capire che stava per succedere qualcosa. In questo caso però non erano uccellini, ma grossi gabbiani romani, scrive Antonella Lattanzi:
“Fuori dalla finestra chiusa garrivano forte i Gabbiani. Lei sudava, il caldo le stringeva la gola, e li guardava. Volavano basso davanti alla finestra, come in tondo, si allontanavano per qualche attimo, tornavano. Garrivano, la puntavano con gli occhi minacciosi. Lei guardava. Uno di loro si fiondò contro il vetro come per irrompere nella stanza. Il vetro non si ruppe. Il gabbiano si schiantò addosso con un rumore come un colpo di fucile. Lei sussultò e scattò in piedi.
Non fece in tempo a vedere cosa ne era stato del gabbiano – se era stordito, se era morto, se non poteva morire – perché la porta si aprì.”
Gli uccelli, qui, non alleggeriscono la storia, Antonella Lattanzi utilizza gli animali non solo come contesto, o come anticipatori emotivi degli avvenimenti. Spesso, e anche all’interno di Una storia Nera avviene, è il clima a fornire il contesto. La differenza tra il clima, o un oggetto messo lì per veicolare l’attenzione del lettore, e gli animali è nell’azione: gli esseri viventi non sono inermi e quindi la loro presenza implica anche qualcosa di diverso da un mero paesaggio letterario all’interno del quale si svolgono le storie.
Un altro esempio di come gli uccelli diventano uno strumento di narrazione, non solo un contesto, è ne La Lucina di Antonio Moresco, piccolo romanzo che generalmente viene collocato a margine delle opere più corpose alle quali ci ha abituato Moresco. Anche in questo caso, nella parte centrale del romanzo avviene qualcosa:
“Non mi ero sbagliato. Sta succedendo qualcosa di enorme nel cielo, dentro quei piccoli cervelli di pochi grammi che attraversano lo spazio come frecce, in tutto quel brulicare di ali che scompigliano l’atmosfera.
Le rondini si stanno preparando a migrare.
In apparenza continuano a fare la loro solita vita. Volano all’impazzata, come sempre, lanciando grida. Solcano il cielo a becco spalancato per inghiottire badilate di insetti. Sbucano come sempre dai loro mille nidi invisibili, aerei, nelle grondaie arrugginite e bucate, nei fori tra le pietre e sui tetti sfondati di questo borgo fuori dal mondo di cui hanno preso possesso. Piombano a volo radente, come sempre, sul filo d’acqua nelle vasche, rischiando di sfracellarsi sui loro spigoli di pietra, le rondini adulte e quelle altre nate da poco che stanno imparando i loro primi, piccoli e folli voli.”
Il capitolo da cui è stato estrapolato questo incipit parla quasi esclusivamente di rondini, ma di che rondini in realtà parla Moresco? Cosa sta succedendo di enorme nel cielo?
Anche in questo caso non è solo contesto, non è solo un paesaggio che crea una situazione emotiva adatta a ciò che sta per succedere nella storia. Moresco parla di un passaggio, di una migrazione, ed è sicuramente anche presagio, le rondini sono anticipatrici degli avvenimenti, ma ciò che succede di enorme nel cielo di Moresco ce lo spiega meglio Leopardi:
“Entrate in un giardino di piante, d’erbe, di fiori. Sia pur quanto volete ridente. Sia nella più mite stagione dell’anno. Voi non potete volger lo sguardo in nessuna parte che voi non troviate del patimento. Tutta quella famiglia di vegetali è in istato di Suffrance, qual individuo più, qual meno. Là quella rosa è offesa dal sole, che gli ha dato la vita; si corruga, langue, appassisce. Là quel giglio è succhiato crudelmente da un’ape, dalle sue parti più sensibili, più vitali. Il dolce mele non si fabbrica dalle industriose, pazienti, buone, virtuose api senza indicibili tormenti di quelle fibre delicatissime, senza strage spietata di teneri fiorellini. […] Certamente queste piante vivono; alcune perché le loro infermità non sono mortali, altre perché ancora con malattie mortali, le piante, e gli animali altresì, possono durare a vivere qualche poco di tempo.” (19 – 22, aprile 1826)
Leopardi mostra come è la natura stessa, anche nella sua forma più dolce e graziosa possibile, ad essere violenta, a nascondere dolore e sopraffazione. Il giardino di cui parla, diventato ospedale, è la foresta del piccolo borgo di Moresco, nel quale le rondini, che allegramente volano nel cielo, in realtà divorano insetti a badilate.
Ed ecco che in riferimento alla visione di Leopardi si inizia a comprendere il ruolo degli animali nei romanzi contemporanei, perché molti scrittori hanno chiesto aiuto agli animali per arrivare a raccontare qualcosa in più di un semplice contesto.
Altro esempio importante, in questo senso, è il vincitore del premio strega nel 2015 è Nicola Lagioia con La Ferocia. L’incipit del suo romanzo è:
“Una pallida luna di tre quarti illuminava la statale alle due del mattino. La strada collegava la provincia di Taranto a Bari, e a quell’ora era di solito deserta. Correndo verso nord la carreggiata entrava e usciva da un asse immaginario, lasciandosi alle spalle uliveti e vitigni e brevi file di capannoni simili ad aviorimesse. […]
Gli allocchi tracciavano nell’aria lunghe linee oblique. Planavano fino a sbattere le ali a pochi palmi dal suolo, in modo che gli insetti, spaventati dalla tempesta di arbusti e foglie morte, venissero allo scoperto decretando la propria stessa fine. Un grillo disallineava le antenne su una foglia di gelsomino. E impalpabile tutt’intorno, simile a una grande marea sospesa nel vuoto, una flotta di falene si muoveva nella luce polarizzata della volta celeste.”
Lagioia continua così, mostrando la presenza di un’influenza leopardiana sin dalla luna, per arrivare agli animali brulicanti, ma è su un animale in particolare che lo scrittore barese concentra la sua attenzione, sul finire del primo capitolo:
“Un gigantesco topo di fogna era arrivato fin lassù e adesso la guardava. Aveva il pelo ispido, la testa squadrata. Gli incisivi giallastri lo costringevano a tenere la bocca semiaperta. Pesava più di quattro chili e non veniva dalle campagne circostanti. Risaliva dai putridi pozzetti di raccolta da cui si dipartivano le gallerie che giungevano alle prime zone urbane. Non era spaventato dalla ragazza che continuava ad avanzare. La guardava anzi con curiosità, tenendo i baffi sul muso spiraliforme. Si sarebbe quasi detto che la puntasse.
Poi l’animale avvertì una vibrazione nell’asfalto e si paralizzò. Il silenzio fu riempito dal rombo di un motore sempre più vicino. Due fari bianchi illuminarono il profilo femminile, e finalmente gli occhi della ragazza si rispecchiarono nello sgomento di un altro essere umano.”
Ne La ferocia l’animale non è solo un contorno, ma diventa l’unico spettatore al quale l’uomo riesce ad apparire per quello che realmente è. In questo caso sembra che il topo sia stato in grado di essere egli stesso un personaggio, ma chi? In chiusura del romanzo, infatti, ritroveremo nuovamente un animale.
Ma è sullo sguardo dell’animale che bisogna soffermarsi ancora un po’ per comprendere come gli animali vengono utilizzati oggi. Perché c’è, ad esempio, Animali domestici, di Letizia Muratori, pubblicato per Adelphi nel quale la protagonista diverse volte parla di sé appunto come un animale e lo sguardo ha una funzione preponderante, mostra una ricerca di riconoscimento; o si può parlare de La vegetariana di Han Kang, libro nel quale la protagonista inizia il suo percorso di purificazione di sé eliminando la carne e gli animali dalla sua dieta perché nell’uccisione degli animali da mangiare risiede gran parte del suo senso di colpa Tutti questi libri, alcuni in maniera minore, altri in maniera più evidente, mostrano una domanda: in che rapporto siamo con gli animali che ci circondano? Chi sono loro che ci guardano? Chi siamo noi guardati dagli animali? È come se questo rapporto riuscisse a delineare anche, in una certa misura, il nostro modo di stare al mondo, come se l’animale, eternamente altro, mostrasse nello sguardo una richiesta di riconoscimento dell’altro e di riconoscimenti di noi nell’altro.
Altri due testi mostrano in maniera evidente questo approssimarsi dell’animale nei confronti dell’uomo e viceversa. Il primo è Il grande animale, romanzo d’esordio di Gabriele Di Fronzo, nel quale Francesco Colloneve, tassidermista, affronta la morte del padre con gli stessi strumenti con i quali affronta la trasformazione del corpo animale da vivo a morto:
“Gli animali, dopo la mia lavorazione perché io li reputi riusciti, devono soddisfare due requisiti, che sembrano discordanti ma che in realtà, per il compito che mi do facendo questo lavoro, non sono affatto incompatibili: da un lato l’esemplare morto deve risultare indistinguibile dal suo corrispettivo vivo e dall’altro, anche se di simulazione di vita si tratta, il preparato montato deve essere una rappresentazione della morte, e non sempre accade che io sia così bravo da tenere assieme la recita del vivo e la figura del lutto, ma è questo l’obiettivo più alto che ritengo possa e debba porsi un tassidermista.”
In questo caso non c’è più distinzione tra paesaggio e storia, tra contesto e testo, ma i due aspetti si fondono e la prossimità tra animali e umani diventa pressoché totale: l’uomo e l’animale possono essere uguali? Il modo in cui mi relaziono con gli animali, l’altro da noi per eccellenza, cosa mostra? È in questo senso che il secondo esempio ci aiuta a comprendere la risposta a questa domanda: Volodine, con il suo testo breve Gli animali che amiamo, dà vita all’elefante Wong, all’interno di uno scenario post apocalittico. Wong si ritrova a discutere con una umana, che totalmente incapace di comprendere la portata dell’apocalisse, reagisce così durante il loro incontro:
«In caso non l’avessi notato, sono una femmina» disse.
Wong biascicò qualcosa. Si dondolava a poca distanza. E figurati, mi pareva troppo bello, pensò. Adesso si comincia.
L’umano grondava sudore. Le mosche gli ronzavano intorno. Le libellule emettevano uno stridio metallico. Tornò a rabbrividire. Aveva un’aria ansiosa, occhi lacrimosi.
«La prof ci ha parlato delle tecniche di riproduzione» disse «Ci ha spiegato cosa succedeva tra un maschio e una femmina. Tu sei un maschio, Wong?».
«Sì» disse Wong.
«Allora, dovrei farti un certo effetto, di norma. Ti faccio effetto?».Wong dedicò mezzo secondo a esaminarsi da sé. Una prolungata introspezione non era necessaria.
«No» disse.
«E perché» chiese l’umano.
«Finiscila. Tatiana Crow. Dammi un po’ d’acqua. Devo ripartire».
«Dovresti aver voglia di copulare con me, di norma».
Wong scosse l’enorme testa.”
In questo caso Volodine mostra qualcosa che afferisce al senso di pudore e alla nudità, del rapporto tra nudità umana e animale, ma tende anche a mostrare come in uno scenario completamente variato la differenza tra animali e umani potrebbe vacillare, incomprensibilmente ci si potrebbe ritenere animali al pari degli altri. Quasi come se per riconoscersi ci sia bisogno di eguaglianza.
Gli animali quindi diventano non solo una parte, un contesto, ma corpo, materia letteraria fondamentale, se non in alcuni casi fondante. Non c’è chiaramente l’intento di accorpare libri differenti per stile o per genere, ma attraverso vari esempi si riesce a mostrare come ci sia una vicinanza dovuta alla necessità di comprendere lo stare nel mondo umano. E a volte queste storie possono condurci ad altre domande, avvicinarci alle risposte, facendoci chiedere: come mi colloco all’interno di questo contesto nel quale non sono più solo protagonista, ma parte di una serie di intrecci più ampia? Cosa succede quando io e un animale ci guardiamo?