Con la sentenza emessa l’undici aprile scorso, il tribunale di Torino ha deciso che fare il fattorino per una societá di food delivery è un lavoro autonomo. I lavoratori non ci stanno, e promettono ricorso. Quella di fattorino non è certo un’ occupazione nuova. Come non è certo una novità che i fattorini siano pagati a corsa o all’ora. La novità, come molti hanno sottolineato, emerge quando fare il rider diventa un’occupazione fissa, a volte addirittura l’unica fonte di reddito per un individuo o per un nucleo familiare in un’economia avanzata. È comprensibile, in quel caso, che certe condizioni contrattuali siano difficili da accettare.
È giusto partire proprio da qui. Sbaglieremmo infatti a fare del problema una sola questione giuridica, concentrandoci sul pur necessario inquadramento legislativo di una professione in divenire. E sbaglieremmo ugualmente a cadere nella tentazione di sensazionalizzare la disputa tra azienda e lavoratori come una lotta tra “uomo” e “algoritmo”. Il caso Foodora ci mette di fronte a due questioni piú importanti: la qualitá dell’innovazione e, soprattutto, la qualitá del lavoro che questa innovazione crea.
Il rider è spesso descritto come una professione figlia della recente rivoluzione digitale. È indubbio che la presenza massiccia di questi lavori sia stimolata dalla possibilità e dall’abitudine sempre più diffusa di comprare o ordinare qualsiasi cosa seduti sul divano di casa, utilizzando lo smartphone come telecomando della nostra vita. Ed è anche vero che la relazione rider-azienda è mediata da un algoritmo, che assegna turni e commesse, e che praticamente non esiste interazione faccia a faccia tra datore e prestatore di lavoro. Ma se sicuramente la tecnologia ha influito sull’esplosione recente del numero di riders, non si può dire che ne sia stata la causa.
Foodora, Deliveroo, ed altre, sono nate ed esistono sostanzialmente per due motivi. Da un lato la possibilità di attingere ad un’ampia offerta di lavoro senza migliori alternative; dall’altro, l’astuzia di usare le nuove tecnologie per collocarsi in una zona grigia a livello contrattuale. Questa combinazione permette loro di mantenere un costo del lavoro basso e grazie a ció di insinuarsi tra i margini, già risicati, dei ristoratori e la volontà del consumatore di pagare un piccolo extra per ricevere il cibo direttamente a casa.
Non siamo di fronte a una forma di innovazione tecnologica che genera valore, magari impiegando asset non utilizzati, come fa ad esempio Blablacar o Uberpop a cui spesso i servizi di delivery sono accomunati, ma ad un’innovazione estrattiva, che cattura valore in una filiera esistente senza crearne di nuovo. In altre parole, mentre è vero che molti lavori della gig economy sono poco pagati e poco tutelati, è forse piú giusto dire che molti lavori della gig economy, e tra questi sicuramente il rider, esistono solo in quanto poco pagati e poco tutelati.
Il problema reale è quindi di natura economica. I servizi di delivery, stretti tra ristoratori e consumatori finali, non creano valore sufficiente per pagare stipendi adeguati e allo stesso tempo garantire un ritorno accettabile sull’investimento iniziale. Da qui scaturisce la situazione paradossale in cui si trovano i lavoratori: nel breve periodo, se le loro richieste venissero accettate, molte, se non tutte, le aziende di delivery sarebbero costrette a chiudere. Nel lungo periodo, un innalzamento del costo del lavoro spingerebbe le poche aziende rimaste ad investire di più nell’automazione dell’ultimo miglio: mettendo droni al posto dei pedalatori, ad esempio. Sostenere la causa dei riders significa quindi potenzialmente lasciarli senza lavoro.
Se le richieste dei rider venissero accettate, molte, se non tutte, le aziende di delivery sarebbero costrette a chiudere. Nel lungo periodo, un innalzamento del costo del lavoro spingerebbe le poche aziende rimaste ad investire di più nell’automazione dell’ultimo miglio: mettendo droni al posto dei pedalatori, ad esempio. Sostenere la causa dei riders significa quindi potenzialmente lasciarli senza lavoro
Leggere il dibattito in termini di valore creato piuttosto che in termini di diritto del lavoro e legislazione aiuta a ipotizzare soluzioni che vadano al cuore del problema. Ne citiamo tre:
Primo, rafforzare la parte debole: ad esempio attraverso la creazione di cooperative di riders. Queste permetterebbero ai soci di aumentare il potere negoziale, mantenendo una fetta più grossa del valore creato e quindi potendo negoziare condizioni migliori.
Secondo, riequilibrare il potere contrattuale tra le parti: ed esempio fornendo ai riders strumenti per gestire meglio il proprio accesso alle piattaforme, garantire la trasferibilitá dei dati e la trasparenza degli algoritmi che controllano i turni. Una serie di proposte in questo senso sono state avanzate un anno fa da Aloisi, De Stefano e Silberman. Una maggiore autonomia dei fattorini faciliterebbe la nascita di piattaforme capaci di innovare in altre componenti della catena del valore per poi attrarre lavoro a condizioni migliori. Può sembrare controintuitivo, ma dovrebbe essere questo il ruolo di un sindacato nel XXI secolo.
Terzo, votare con il portafoglio: il consumatore potrebbe o decidere di voler dare più valore al servizio (poco probabile, anche se l’uso delle “tips”, mance al rider già si diffonde) o premiare aziende che vantano un trattamento migliore nel confronto dei riders, come le cooperative. La volontà, e spesso l’esigenza, di pagare il meno possibile è molte volte il motore dello sfruttamento, ma non è detto che non possa nascere una nuova coscienza dei consumatori come è già successo nel caso del cibo biologico o del commercio sostenibile.
Sone tutte opzioni interessanti, che non ci liberano peró da una considerazione di fondo: facciamo enorme fatica a creare lavoro “buono”, lavoro cioè dove ci sia abbastanza valore da spartire tra capitale e lavoratori. Lavoro che nasca da un’innovazione che “ingrandisca la torta” e allarghi la platea che se la spartisce. È la nemesi di un certo modello di sviluppo immaginato da un pezzo di Silicon Valley (e molto in voga anche ultimamente nel Bel Paese): quella che non si è mai posta una domanda sulla qualità dell’innovazione che creava, e che oggi è affascinata da scorciatoie come il reddito universale, per “risarcire” con un trasferimento di denaro l’incapacità di offrire lavoro di qualità.
Non è l’unica via possibile di fare innovazione. Lavoro buono ce n’è, forse non ancora abbastanza, ma anche quel poco non riesce spesso a incontrarsi con l’offerta giusta: è di della scorsa settimana lo studio di Adecco Group per cui Adecco Group in Italia nel 2020 ci saranno 135.000 posti di lavoro non coperti in ambito ICT e ingegneristico. Il risultato? Migliaia di “lavoretti” da una parte e migliaia di “buone” posizioni scoperte dall’altra. Quando parliamo di “difesa del posto di lavoro” dovremmo ricordarci che vanno difesi anche i posti ancora vuoti.
Per vincere queste sfide non ci sono soluzioni facili e nemmeno scorciatoie, c’è bisogno dell’impegno di tutti. Imprenditori, investitori e sostenitori dell’innovazione in generale, devono pensare a creare valore aggiunto, a rendere la torta piú grande per tutti, e devono trovare le condizioni giuste per poterlo fare. Lavoratori, sindacati e soprattutto la politica non possono illudersi di poter risolvere la questione del lavoro per decreto o per sentenza.
Una strada esiste; è fatta di innovazione tecnologica vera, cultura d’impresa, investimenti in istruzione e formazione e politiche che stimolino e facilitino tutte queste attivitá. Guarda caso non è la strada più semplice.