L’indignazione nei confronti di Facebook ha raggiunto livelli altissimi, c’è chi minaccia di abbandonare la piattaforma e chi lo ha già fatto ma la vicenda di Cambridge Analytica ha semplicemente palesato un aspetto che conoscevamo già, ovvero che i dati degli utenti rappresentano il fulcro del modello di business delle piattaforme digitali.
Dylan Curran, consulente e sviluppatore informatico, sul Guardian dello scorso 30 marzo, elenca tutte le informazioni che ad esempio ricava Google. Si va dalla localizzazione (se si ha l’opzione attiva) alle ricerche fatte dai dispositivi attraverso cui si effettua l’accesso, dalle app usate di cui si conosce frequenza di utilizzo ai video visualizzati su Youtube, dai documenti salvati alla musica ascoltata, dalle pagine web visitate agli eventi in calendario e così via. Google elabora anche un profilo che comprende residenza, genere, età, interessi, informazioni relative alla carriera, stato civile ed altro ancora, per individuare inserzioni pubblicitarie mirate. Tutti questi dati possono essere scaricati. Curran scrive che anche Facebook naturalmente archivia una serie enorme di informazioni e offre ai propri utenti la possibilità di scaricarle. Per rendere l’idea della mole di dati che Google e Facebook hanno di ciascun loro utente, Curran ha selezionato i propri file e le dimensioni sono 5.5GB nel primo caso e 600MB, pari a 400 mila documenti Word, nel secondo. Archiviazione dei dati e loro utilizzo rappresentano un aspetto controverso delle piattaforme digitali, con implicazioni di carattere economico, giuridico e sotto certi punti di vista, anche etico.
Per rendere l’idea della mole di dati che Google e Facebook hanno di ciascun loro utente, Curran ha selezionato i propri file e le dimensioni sono 5.5GB nel primo caso e 600MB, pari a 400 mila documenti Word, nel secondo
Eppure nel tempo, ciò non ha impedito il grande successo dei social network e dei nuovi media. Il Pew Research Center li studia dal 2005, ovvero da quando essi erano usati solo dal 5% degli americani. Secondo un suo sondaggio condotto tra il 3 e il 10 gennaio del 2018, il 69% delle persone afferma di usare qualche tipo di piattaforma (tranne Youtube) ed il numero è di quattordici volte superiore al dato rilevato nel primo studio effettuato dal fact tank americano. I motivi per stare online vanno dal desiderio di mantenere o creare interazioni sociali, all’interesse per attività civiche o politiche, dalla condivisione di informazioni sanitarie alla raccolta di notizie di carattere scientifico, dallo svolgimento di attività lavorative alla ricerca di news. Vi sarebbe anche una relazione, sebbene modesta, tra l’utilizzo dei social media e livelli più elevati di fiducia, un numero più alto di amici, maggiore sostegno sociale e una più accentuata partecipazione civica, almeno questo è ciò che emerge da un report del 2011.
Tuttavia, i dubbi degli utenti sulla gestione dei propri dati da parte delle piattaforme digitali non rappresentano un atteggiamento recente, basti pensare che già nel 2014 il 91% degli americani interpellati da un sondaggio affermò di essere d’accordo o estremamente d’accordo sul fatto di aver perso il controllo su come le proprie informazioni vengono raccolte e usate. Inoltre, quattro anni fa l’80% dei soggetti coinvolti dallo studio dichiarò di essere preoccupato su come inserzionisti e altri avessero accesso ai propri dati condivisi sui social media e il 64% auspicava una regolamentazione governativa in merito. Sempre il Pew Research Center ricorda che in base a uno studio condotto tra il 30 marzo e 3 maggio 2016, appena il 9% affermò di fidarsi di come i social network utilizzano le proprie informazioni. È quindi evidente che i problemi legati a privacy e sicurezza non vengano scoperti ora.
Il social network di Zuckerberg e soci non è l’unico a usare i nostri dati e soprattutto, gli utenti già da tempo mostrano dubbi e perplessità sulla e-privacy delle piattaforme digitali
Il discorso peraltro non è limitato solo agli Usa. Nel Vecchio Continente, Eurobarometer ha approfondito le dinamiche relative alla cosiddetta e-privacy nel 2016.
Ciò che è emerso è che più di nove persone su dieci vogliono che si possa accedere ad informazioni come foto, liste di contatti e così via presenti su computer, smartphone e tablet, solo con il proprio permesso e che venga garantita riservatezza ad e- mail e messaggistica istantanea. Allo stesso modo, l’82% ha risposto che anche gli strumenti per monitorare l’attività online (come i cookies) devono essere usati solo previa autorizzazione. Il 60 % ha dichiarato di aver cambiato le impostazioni sul proprio browser per ragioni legate alla privacy. Il 93% ritiene che i provider debbano fornire aggiornamenti ai software per garantire sicurezza delle informazioni e il 90% concorda sull’uso della crittografia. Il report di Eurobarometer è stato condotto il 7 e l’8 luglio 2016 su 26526 persone di differenti gruppi sociali tali da rendere il campione rappresentativo e contiene molti dati interessanti. In particolare, ne emerge uno tra tutti, ovvero che per il 71% è inaccettabile che le compagnie tecnologiche condividano le informazioni degli utenti senza il loro permesso, anche se questi dati possono essere utili a fornire servizi in linea con i propri interessi e le proprie esigenze.
L’indignazione nei confronti di Facebook sembra dunque tardiva. Il social network di Zuckerberg e soci non è l’unico a usare i nostri dati e soprattutto, gli utenti già da tempo mostrano dubbi e perplessità sulla e-privacy delle piattaforme digitali.