Ormai da molti mesi accade puntualmente, soprattutto sui social ma anche nei media tradizionali, che venga portata all’attenzione una vignetta o una battuta capace di sollevare una stessa questione: ci sono argomenti tabù per l’umorismo o la satira? Oppure la libertà d’espressione deve essere rispettata a ogni costo, contro ogni censura? Proviamo a fare chiarezza sui tanti punti da esaminare e con qualche esempio.
Innanzi tutto va chiarito che la frase o la battuta espressa in un contesto privato, per quanto grande – una tavolata di amici, una festa con decine di invitati – non può avere lo stesso valore, per le questioni in gioco, di una comunicazione pubblica. Nel contesto privato può infatti valere, se condivisa, una modalità di comunicazione che dà per scontate alcune premesse che rendono lecito il servirsi di allusioni pesanti, scurrilità e volgarità, stereotipi razzisti o sessisti, perché è proprio il contesto “sicuro” a renderle espressioni innocue e accettate. Il classico esempio è un gruppo di amici e amiche dove ci sono anche omosessuali dichiarati o dichiarate, e fioccano doppi sensi e giochi di parole triviali che fuori dal contesto amicale sarebbero senz’altro gravi offese o volgari discriminazioni.
Nel caso della dichiarazione pubblica – la frase di un politico, una vignetta satirica sul giornale, una intervista per la televisione – quello spazio sicuro non c’è più: non si può pretendere di avere valido nel contesto pubblico lo stesso codice linguistico che usiamo con amici e amiche di vecchia data. Per questo si è pensato a quel codice di comunicazione chiamato politically correct: per avere la sicurezza di non colpire la sensibilità di alcuno si usano formule evidentemente artificiali e praticamente impossibili da usare nel parlato di tutti i giorni.
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