«Isteria di massa e totale ipocrisia». Così Roman Polanski ha bollato il movimento #metoo, dopo che anche il suo nome è stato fatto fuori dalla Oscar Academy. Con tante teste coronate che stanno cadendo sotto gli strali di #metoo, sarebbe facile ma superficiale dare ragione a Polanski e osservare come una giusta battaglia per la parità di genere e per la dignità della donna si stia trasformando in una crociata puritana. Ma la verità è che #metoo non ha solo a che vedere con la parità di genere e la sessualità.
Tali valori rappresentano la fisiologica copertura ideologica di un movimento che, al pari di altri gruppi che esprimono minoranze o soggetti svantaggiati, ha a che fare in realtà più con il potere e il mercato che con l’etica. Dai movimenti femministi a quelli di migranti, gay o lgbtq, ci troviamo di fronte a fenomeni che stanno assumendo una piega protezionista che, in nome di una invocata uguaglianza di trattamento con i gruppi dominanti, perseguono invece una concreta inuguaglianza: le discriminazioni positive. Viviamo, infatti, in un’epoca caratterizzata dalla formale uguaglianza giuridica, e dove vige un sistema pluralistico di confronto fra gruppi espressivi di identità differenti, che dovrebbe essere informato dai principi del mercato: universalistici e generali.
Essere migrante, gay, o anche padano o terrone, appartenere cioè a una categoria particolare e concreta, diventa un vantaggio competitivo dove le risorse non sono distribuite per merito ma per appartenenza a una categoria protetta
Un mercato, che teoricamente non discrimina in base a censo, sessualità, etnia, ecc, dove i gruppi sociali competono liberamente. Questo idillio, influenzato dal liberalismo e dalla metafora del mercato che opera anche nella competizione fra gruppi sociali, fallisce, però, clamorosamente. Pur se donne, gay o migranti possono in linea di principio competere e accedere dovunque vogliano, ci troviamo di fronte a un “fallimento del mercato”: e per alcuni gruppi “svantaggiati” la competizione diviene una gara truccata. Così, nel mondo dello spettacolo, un’elites dominante di maschi impedisce alle donne di scalare la piramide sociale, senza cedere a ricatti di tipo sessuale.
Se la natura ideologica della narrazione liberale e competitiva della nostra società è rivelata drammaticamente proprio da casi come #meetoo, il rimedio che tanti gruppi minoritari stanno proponendo rischia però di essere peggiore del male. È vero infatti che la nostra società non è competitiva e concorrenziale, e per tanti gruppi minoritari c’è un soffitto di vetro difficile da infrangere per premiare i talenti individuali, liberandoli dagli svantaggi associati all’appartenenza ad un gruppo. Ma la soluzione implicita a questa condizione, favorire le “discriminazioni positive”, rischia di ingenerare una situazione opposta e peggiore. Mentre, infatti, il legislatore dovrebbe favorire dei contesti sociali dove, appunto, le discriminazioni legate all’appartenenza di un singolo al gruppo minoritario vengono eliminate, la teoria delle discriminazioni positive sostiene che, per indennizzare un gruppo svantaggiato, invece di creare una cornice concorrenziale che premi i migliori, bisogna creare un mercato “protezionistico” dove alcuni gruppi sono rappresentati pro quota.
Il vero femminismo deve essere strumento per pretendere pari opportunità, non per invocare un protezionismo che rischia di essere non solo antimeritocratico ma di ridurre la nostra società a collazione di gruppi di interesse
È la decisione assunta in Italia, per esempio, nel caso delle quote rosa, dove una donna deve essere rappresentata al di là dei meriti, in una sorta di indennizzo storico nei riguardi della segregazione femminile. Il rischio di questo sistema è che, di fronte al fallimento ideologico del liberalismo universalistico e astratto, la società collassi in una dimensione iperparticolaristica. Essere migrante, gay, o anche padano o terrone, appartenere cioè a una categoria particolare e concreta, rispetto alla generalità ed astrattezza della cittadinanza, universale e che non discrimina per censo, razza o religione, diventa un vantaggio competitivo dove le risorse non sono distribuite per merito ma per appartenenza a una categoria protetta. Con il rischio, che la categoria svantaggiata rimarrà sempre tale, perché così diventa status per fruire di risorse. Il pericolo di tutto questo è sotto gli occhi di tutti. Alle quote rosa, si affiancano sempre di più quote per altre minoranze.
In molte regioni del Nord Italia, ad esempio, il criterio della residenza viene spesso utilizzato nei bandi per assegnare risorse, anche contro la povertà, che pertiene al novero dei diritti universali dell’Uomo. Si tratta, dunque, di un espediente per far prevalere “l’etnia” sui diritti universali: premiare i padani e penalizzare “terroni” e migranti. Il rischio del passaggio da una società basata sui diritti universali dell’Uomo inverati da un mercato plurale e libero all’accrocchio di varie comunità dove le risorse vengono allocate pro quota è concreto. Il vero femminismo, d’altronde, deve essere strumento per pretendere pari opportunità, non per invocare un protezionismo che rischia di essere non solo antimeritocratico ma di ridurre la nostra società a collazione di gruppi di interesse.