«Il profondo divario tra le regioni italiane ha una semplice spiegazione: i salari sono troppo bassi al Nord e troppo alti al Sud». Così Tito Boeri (su lavoce.info), sintetizzando un’analisi condotta con Andrea Ichino ed Enrico Moretti (2014) che ha riacceso il dibattito sulla flessibilità salariale. Ma perché al Sud i salari sarebbero troppo alti? La spiegazione degli autori citati è che i prezzi e la produttività del lavoro sono più bassi che al Nord, mentre le retribuzioni uguali. L’uguaglianza nelle retribuzioni, a fronte dei divari nei prezzi e nella produttività, fa sì che al Sud si determini disoccupazione che, però, non si traduce in sufficiente emigrazione, a causa dell’alto prezzo delle case e degli affitti al Nord. Questi squilibri sono determinati dalla contrattazione centralizzata dei rapporti di lavoro, che fissa retribuzioni uguali in tutto il paese. Essa, secondo gli studiosi citati, andrebbe abbandonata. I salari dovrebbero essere fissati a livello di singola azienda o, in subordine, sulla base dei livelli territoriali di produttività.
Questo ragionamento potrebbe sembrare convincente. Eppure, come abbiamo argomentato in due saggi (1, 2) su OpenCalabria.com, l’analisi di Boeri, Ichino e Moretti solleva alcuni dubbi. Innanzitutto, non convince il metodo usato per calcolare le differenze regionali nei prezzi. I tre studiosi usano, infatti, un indice in cui le spese per l’abitazione rappresentano ben il 34% della spesa media delle famiglie (circa il triplo di quanto calcolato dell’Istat). Date le differenze regionali nei valori delle case, questo metodo spinge verso il basso i prezzi medi al Sud e verso l’alto al Nord. Si arriva così a concludere, ad esempio, che Caltanissetta e Crotone sono le province con più elevati salari reali d’Italia, mentre Aosta e Milano tra quelle con i salari più bassi. A differenza di quanto fatto dai tre studiosi, gli indici che misurano l’inflazione non vengono, però, usati per comparare i prezzi tra aree geografiche. Discutibile, poi, l’utilizzo dei prezzi delle case per confrontare il “costo della vita” tra le regioni. Secondo le ricerche condotte qualche anno fa dall’Istat e da economisti della Banca d’Italia, la differenza nei prezzi tra Nord e Sud è sì significativa (tra il 12 e il 16%), ma assai minore di quella che si ottiene quando si considerano i prezzi delle case.
Il presupposto che la differenziazione territoriale dei salari si traduca, al Sud, in un aumento dell’occupazione e dei redditi non è affatto dimostrato. Un recente lavoro di Guido De Blasio e Samuele Poy (2017) ha mostrato come le “gabbie salariali” che, negli anni ’50 e ’60, allinearono i salari ai livelli regionali di produttività, non ebbero effetti netti sull’occupazione
Anche i confronti regionali tra produttività e costo del lavoro suscitano qualche perplessità. Nel meridione, nei settori industriali e dei servizi, al minor fatturato per addetto si associano anche retribuzioni inferiori, di circa 15 punti percentuali, rispetto alla media italiana. Il costo del lavoro al Sud rispecchia la produttività media e il minor livello dei prezzi rispetto al Nord (perlomeno quando si fa riferimento alle stime Istat). Le differenze territoriali nella produttività e nei salari medi riflettono quelle nelle strutture produttive. Al Sud, infatti, i settori a basso valore aggiunto (come agricoltura e servizi) hanno un peso maggiore. Le comparazioni territoriali nella produttività andrebbero, perciò, sempre fatte tra le stesse industrie; quelle basate su dati aggregati hanno scarso significato.
Ma i dubbi non riguardano solo gli aspetti metodologici. Il presupposto che la differenziazione territoriale dei salari si traduca, al Sud, in un aumento dell’occupazione e dei redditi non è affatto dimostrato. Un recente lavoro di Guido De Blasio e Samuele Poy (2017) ha mostrato come le “gabbie salariali” che, negli anni ’50 e ’60, allinearono i salari ai livelli regionali di produttività, non ebbero effetti netti sull’occupazione. E non bisogna dimenticare che la produttività del lavoro dipende da molti fattori, tra cui la domanda per i beni e servizi prodotti che, a sua volta, è legata anche ai salari.
Sullo sfondo di molte proposte di riforma, e quella citata non sembra un’eccezione, c’è l’idea che i “meccanismi di mercato” portino, necessariamente, a risultati economicamente e socialmente desiderabili
Ci si può chiedere, poi, perché l’emigrazione meridionale dovrebbe essere “forzata” con riduzioni salariali, essendo già in atto. Tra il 2002 e il 2016, oltre 783mila meridionali sono emigrati: mezzo milione i giovani, oltre 200mila i laureati. Non è certo l’emigrazione di massa del passato, ma questi dati preoccupano alla luce del declino demografico meridionale.
Infine, alcune considerazioni più generali. In un’economia globale, le persone e, soprattutto, i capitali si spostano con facilità tra le nazioni. I prezzi delle abitazioni al Nord sono un deterrente per l’emigrazione meridionale? Ma i giovani italiani – non solo i meridionali – oggi emigrano in Inghilterra, Germania, Spagna e in altri paesi: è la possibilità di trovare un lavoro adeguato che li attrae. E la competitività di un’economia avanzata, come quella italiana, dipende davvero dal costo del lavoro? Di quanto dovrebbero scendere i salari perché il Sud possa competere con la Romania o con la Cina nell’attrazione d’investimenti?
Sullo sfondo di molte proposte di riforma, e quella citata non sembra un’eccezione, c’è l’idea che i “meccanismi di mercato” portino, necessariamente, a risultati economicamente e socialmente desiderabili. Si ridimensiona, così, il ruolo delle politiche per lo sviluppo e, soprattutto, si trascurano le conseguenze sociali delle scelte economiche.