L’ignoranza è la merce più preziosa (e qualcuno ci fa un cumulo di soldi)

Altro che popolo contro élite: non siamo mai stati così contenti di consumare ciò che i ricchi producono. Cosa ci offrono? Cose a basso costo, ma dagli alti profitti. Così l'ignoranza - anche grazie anche ai social - è diventata un business che, dalla cultura alla politica, ha divorato tutto

Immagine da Youtube

Il 2018 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma già si è capito quale sarà la parola dell’anno. Tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al concetto di “ignoranza” e all’eterno ritorno dell’accusa di parteciparvi a vario titolo.

C’è chi ne è terrorizzato, e si inventa “corsi di perfezionamento” negli USA per sembrare ancora più “professorone” di quanto già realmente sia. E chi invece la considera un simbolo di purezza da contrapporre alle malvagie coscienze corrotte dei professoroni: tipo Di Maio e Salvini (che però candidano a premier proprio il professorone-taroccone), ma anche, per restare negli USA, tipo Mark Zuckerberg e Steve Jobs, che non hanno mai smesso di rivendicare con orgoglio il loro status di drop-out, di studenti che hanno interrotto gli studi prima di arrivare alla laurea.

C’è da riconoscere lo straordinario potere paragnostico di Adriano Celentano: si presentava come Re degli Ignoranti per creare scompiglio, mentre oggi, con quella stessa etichetta, avrebbe potuto aspirare a palazzo Chigi. Anche se a ben vedere il Molleggiato faceva il paraculo: per andare in TV assoldava tra gli autori Michele Serra, recentemente crocifisso per aver scritto che l’attuale esaltazione dell’ignoranza messa in atto dai movimenti populisti di tutto il mondo sarebbe parte di un complotto contro il popolo.

Ma che si tratti di un terribile piano per inchiodare le masse popolari alla loro condizione subalterna o del viatico per un ritorno a un Paradiso Perduto, poco cambia. Quello che conta davvero è che l’ignoranza sia diventata un business, un settore di mercato che, a poco a poco, ha finito col divorare tutti gli altri. L’ignoranza, oggi, è la forma stessa del main- stream, e chiunque è obbligato a farci i conti, a prescindere da quale sia la propria area di competenza.

Solo fino a pochi anni fa le cose funzionavano in modo completamente diverso: si consumavano prodotti di massa, ma nello stesso tempo esisteva una tensione, anche solo da parte di una nicchia, di fare una sorta di selezione all’ingresso e rivolgersi a un pubblico specifico.

Attenzione: non un pubblico di ricchi che grazie al potere economico potevano permettersi il pezzo unico, proprio come oggi i ricchi non vanno all’Ikea ma comprano il mobile del designer quotato e invece di andare al villaggio turistico vanno al boutique hotel. Si postulava, al contrario, l’esistenza di un pubblico “di qualità” interno al ceto popolare, e ci si sforzava di andarselo a cercare.

Il 2018 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma già si è capito quale sarà la parola dell’anno. Tutto, ma proprio tutto, ruota attorno al concetto di “ignoranza” e all’eterno ritorno dell’accusa di parteciparvi a vario titolo

Il disco dalle sonorità ricercate, come quelli dell’ultimo Battisti, da ascoltarsi rigorosamente su vinile e non su cassetta ; il cineforum d’autore il mercoledì sera; l’intero settore dell’artigianato di qualità. Senza dimenticare le innumerevoli contro-culture giovanili che si sono alternate per tutta la seconda parte del Novecento, dai punk ai metallari, dagli hippie all’hip-hop.

E la stessa cosa avveniva nel settore di mercato principale, quello della politica: leader e segretari erano perfettamente consci dell’importanza di comunicare direttamente con gli elettori (altrimenti la RAI non sarebbe stata sotto il guinzaglio dei partiti), ma c’era sempre un pudore di fondo, una mediazione verso l’alto esercitata dal linguaggio aulico, dall’esasperato rispetto della forma e delle Istituzioni. È vero che, in un secondo momento, con l’arrivo della TV commerciale, le cose cambiarono: ma esisteva, ancora, la mediazione del Conduttore e della famosa “linea editoriale”. Ci si poteva spingere verso il basso, come faceva Michele Santoro aizzando telerisse identiche a quelle organizzate da Aldo Biscardi, solo a patto di avere le spalle coperte sul versante “alto”, invitando in studio il filosofo o l’intellettuale a fare da garante circa la valenza culturale del programma.

Era un mondo che ruotava attorno al concetto di foglia di fico, di cui l’intera programmazione Mediaset della seconda metà degli anni ’90 costituiva summa teorica e superamento, coerentemente con quello che era accaduto in America nel corso del decennio precedente.

Col tempo, però, cominciò a farsi largo in maniera sempre piu’ insistente una domanda: perché sforzarsi di tenere alta l’asticella della qualità, se abbassandola si possono abbattere i costi e aumentare il profitto?

Bisognava omogenizzare i gusti del pubblico, desensibilizzare le persone al punto da renderle incapaci di cogliere dapprima le sfumature e poi la nozione stessa di differenza, e quindi di qualità. Una strategia di marketing che pareva irrealizzabile, e che tuttavia trovò straordinario impulso grazie all’esplosione del web 2.0 e all’avvento dei social.

Eliminando ogni mediazione e dando origine ad un sistema economico quantitativo, dove il valore di qualsiasi cosa si misura solo ad esclusivamente sulla base del numero di click – a prescindere che tali click siano stati effettuati da membri della Scuola di Francoforte o da un branco di pecore – il mercato ha potuto sbarazzarsi, in pochissimi anni, di ogni foglia di fico, diventando libero di produrre solo contenuti neutri destinati a un pubblico generico e indifferenziato. Un pubblico che non solo non desidera la qualità perché incapace di riconoscerla, ma che, in un totale ribaltamento di prospettiva, riconosce nella quantità l’unica unità di misura per giudicare il valore di qualsiasi cosa, si tratti di un prodotto, di un’idea o di una persona.

Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica

Un pubblico ignorante, insomma, per il quale è vera l’opinione che fa tanti like, non importa se espressa dall’esperto o dal primo che passa per strada; e per il quale esiste solo ciò che è abbastanza neutro da piacere a tutti, mentre quello che crea una reazione, e che quindi fa giocoforza selezione, non viene censurato ma è destinato a scomparire da solo, come sono scomparse le contro-culture.

È il mondo della famosa puntata di Black Mirror dove si assegna a un feedback alle persone dopo ogni interazione quotidiana (esattamente come tra pochi anni si farà in Cina). È il mondo della trap, un genere musicale fatto apposta per essere ascoltato con cuffiette scadenti su impianti scadenti, che si è liberato delle costrizioni metriche del rap per renderlo alla portata di chi non era in grado di creare le rime. È il mondo del giornalismo gossipparo, che a sinistra mette le notizie serie e a destra una foto Instragram con la bonazza del giorno in bikini ultra-ridotto.

È il mondo di Youtube, dove impazzano scoreggiatori seriali, stereotipi sui meridionali che mangiano tanta parmigiana o sui milanesi schiavi del lavoro, diciottenni con problemi di cuore romanzati come nei peggiori libri Harmony; e dove tuttavia detti Youtubers, che fanno dell’assenza di talento la loro unica cifra stilistica, invadono da protagonisti il mondo del cinema e dell’editoria, monopolizzando il catalogo della principale casa editrice italiana.

Sono solo una serie di istantanee del gigantesco mercato dell’ignoranza globale, dominato dalle grandi aziende della Silicon Valley che, intuito l’andazzo, ci si sono fiondate per prime. Non c’è da arrabbiarsi né da gridare al gomblotto come fa Michele Serra: c’è da prendere atto che la strategia commerciale ha funzionato, il neo-liberismo ha abbassato l’asticella fino al livello del suolo e i consumatori hanno risposto positivamente.

Anzi: hanno risposto così positivamente che le cose sono sfuggite di mano e il business dell’ignoranza ha finito per allargarsi anche alla politica; la quale, a sua volta, non ha fatto altro che mettersi a rimorchio del mercato: infatti, da anni, non c’è più un partito o un leader politico – e non solo tra le fila dei movimenti cosiddetti populisti, basta analizzare l’intera parabola di Barack Obama – che non faccia della demagogia e del gentismo più bieco la propria ragione sociale.

Per questo non è in atto alcuna guerra popolo contro élite: le élite economiche non sono mai state così forti, basta guardare le dimensioni di Leviatani come Google o Amazon; e il popolo non è mai stato così contento di consumarne i prodotti, di abbracciarne la logica.

La pigrizia, insomma, si è rivelata essere il motore del mondo. Tocca farsene una ragione, perché è probabile che le cose non cambieranno per molto tempo.

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