Che cosa aveva in mente il presidente del consiglio Giuseppe Conte quando ha detto a Montecitorio che ha intenzione di rinegoziare con l’Europa il debito pubblico? Forse un lapsus, magari freudiano come quello a proposito della “presunzione di colpevolezza”? Intendeva il disavanzo pubblico. O forse ha svelato con una buona dose d’ingenuità l’arrière pensée, il non detto (o almeno non così papale papale) del governo giallo-verde? Certo è che la trojka Conte-Salvini-Di Maio (sia detto in ordine gerarchico non di importanza) ha davanti a sé una situazione difficile. Si è data una legislatura di tempo. Dice che il contratto di governo costerà 100 miliardi, ma divisi in cinque anni. Solo che nello stesso periodo di tempo dovrà rimpiazzare titoli di stato per mille miliardi, tanti infatti vengono a scadere di qui al 2023, con una forte concentrazione nel primo triennio. È naturale mettersi le mani nei capelli, è umano chiedersi con umiltà: come faremo? Meno umile è cercare a tutti i costi qualche scorciatoia.
La difficoltà aumenta perché si sta chiudendo una finestra di opportunità (come amano dire i tecnici che, nonostante la gogna subita, sono numerosi in questo governo). In parole povere, finisce la politica monetaria super accomodante e, secondo quel che dicono i manuali, la palla passa alla politica fiscale.
La prossima settimana, giovedì 14 giugno, la Banca centrale europea dedicherà il suo consiglio alla fine del quantitative easing, prevista per il prossimo settembre. Sarà probabilmente una operazione progressiva, ma avverrà. Non solo. Sempre in questo mese la Federal Reserve dovrebbe decidere se aumentare i tassi di interesse. Forse rinvierà ancora vista la forza del dollaro che sta provocando guai nei mercati emergenti e un forte mal di testa a Donald Trump che vuole sostenere gli esportatori del Midwest. In ogni caso, la Fed ha già imboccato la strada lungo la quale s’avvia adesso anche la Bce, la via del “ritorno alla normalità”. Dall’autunno in poi circolerà meno moneta stampata dalle banche centrali e i tassi d’interesse saliranno, quelli di mercato come quelli ufficiali. Quella montagna di mille miliardi da rimpiazzare sarà, così, ancora più costosa.
Per realizzare il contratto di governo, a spanne ci vogliono 20 miliardi l’anno. Se bisogna trovarne altrettanti solo per parare i colpi del nuovo scenario monetario, la coperta già corta diventa striminzita. E, volente o nolente, torna la odiata austerità
Intendiamoci, il debito pubblico italiano, per quanto altissimo, è ancora sostenibile. Gli olandesi, i quali ne dubitano, hanno torto. Abbiamo un avanzo primario e, di fronte a una impennata dei tassi, il rapporto debito/pil potrà essere stabilizzato con un aggiustamento pari a un punto e mezzo di pil. Lo scrive Olivier Blanchard ex capo economista del Fondo monetario. Per uno come lui 1,5% sono bruscolini. Per il governo giallo-verde una stangata da 23 miliardi è una campana a morto. Per realizzare il contratto di governo, a spanne ci vogliono 20 miliardi l’anno. Se bisogna trovarne altrettanti solo per parare i colpi del nuovo scenario monetario, la coperta già corta diventa striminzita. E, volente o nolente, torna la odiata austerità.
Sono ragionamenti da gufi, avrebbe detto Matteo Renzi. Mica tanto. Da ragionieri se vogliamo, però sono un richiamo alla realtà. Conte ha ripetuto che il debito pubblico si riduce con la crescita e non con i tagli. Ma di quanta crescita ci sarà bisogno? “Vogliamo farne tanta”, dicono i pentastellati. Bene, è positivo che adesso non pensino più alla decrescita felice. Ma tanta crescita non si fa allargando i cordoni della spesa pubblica.
Luigi Di Maio è andato dalla Confcommercio e ha detto che non aumenterà l’Iva, al contrario di quel può pensare il ministro dell’economia Giovanni Tria. Applausoni dai commercianti, d’altra parte esordire rincarando le imposte indirette per un governo che dovrebbe ridurre la pressione fiscale sarebbe un suicidio. Ma allora bisogna trovare al più presto 12,4 miliardi solo per disinnescare le clausole di salvaguardia.
Uno dei primi atti del governo dovrebbe essere la “pace fiscale”, cioè varare un consistente condono. Matteo Salvini vuole tirarci fuori le risorse per finanziare la flat tax, ma forse finirà per scongiurare l’aumento dell’Iva. Come nel gioco dell’oca, siamo alla casella di partenza. Per questo riprende quota il sospetto che la vera polpa di questo governo sarà il tentativo di rinegoziare non solo e non tanto il deficit (cioè fare come Renzi, ottenere più flessibilità), ma il debito.Sbarrare le frontiere, bloccare il cambio e ogni movimento di capitale, nazionalizzare le banche. Un universo economico concentrazionario. Un futuro che nemmeno il gufo più portaiella potrebbe immaginare
Circola l’idea di ridenominare una parte del debito in una nuova valuta che non sia un mero ritorno alla lira, ma una sorta di seconda moneta. Zingales ha parlato di un euro B che comprenda i paesi meridionali. Difficile che ci stia Madrid: il nuovo primo ministro, il socialista Sanchez, ha ribadito che vuole restare nell’euro e se non ci sta la Spagna non ci sta nemmeno il Portogallo. Quanto alla Grecia, dopo il salvataggio e tutte le amare medicine ingoiate, vai a convincerla che tutto è stato inutile. L’euro B, dunque, non sarebbe che il ritorno alla lira. Molti, a cominciare da Paolo Savona, ritengono che ci si arriverà comunque, per questo bisogna avere una via d’uscita (il mitico piano B). I giallo-verdi evocano chiaramente l’idea di una doppia circolazione, o meglio di un “corso forzoso”, proprio come nel 1866. Anche allora, del resto, il paese aveva provato a far parte a pieno titolo della Unione monetaria latina.
Di proposte per un taglio netto ne girano a bizzeffe. Ma se escludiamo quella presentata a suo tempo da Paola Savona il quale vuole utilizzare il patrimonio pubblico collocando in un fondo presso la Cassa depositi e prestiti, le altre gira e rigira finiscono con un più moneta stampata dalla banca centrale. Cioè con uno scenario opposto a quel che sta avvenendo sul mercato al quale l’Italia dovrebbe comunque rispondere anche se avesse di nuovo la lira. A meno di non sbarrare le frontiere, bloccare il cambio e ogni movimento di capitale, nazionalizzare le banche. Un universo economico concentrazionario. Un futuro che nemmeno il gufo più portaiella potrebbe immaginare.