Jurassic World, una grande saga pop distrutta dal buonismo animalista

Il quinto episodio della saga creata dai romanzi di Michael Crichton e dal geni cinematografico di Steven Spielberg è un film talmente aberrante e disfunzionale che, come il mostro del professor Frankenstein del romanzo di Mary Shelley, se avesse la ragione si vorrebbe solo dare fuoco

Se per fare un grandioso episodio di Jurassic Park, ovvero una delle più grandi saghe cinematografiche della storia, bastasse far aprire la maniglia di una porta da un velociraptor, far tremare una brocca d’acqua all’avvicinarsi di qualcosa di molto grosso e di terribilmente cattivo, metterci un elegantissimo Jeff Goldblum in abito scuro, o ancora, far fare a botte due dinosauri per far scappare i protagonisti, allora questo Jurassic World – Il regno distrutto potrebbe anche essere incluso nella lista insieme agli altri.

Solo che, purtroppo, anzi, per fortuna, anche per far un film di genere con dinosauri cattivissimi che sbranano gente a caso serve avere almeno un’idea di come si costruisca un racconto e di che cosa fa funzionare una storia. E a vedere quest’ultimo episodio della saga, il quinto, diretto dallo spagnolo Juan Antonio Bayona con Spielberg alla produzione esecutiva, appare evidente che, per quanto di soldi negli effetti speciali ne abbiano investiti, probabilmente sono andati al risparmio sugli sceneggiatori.

Il regno distrutto è infatti un vero e proprio Frankenstein, che tra l’altro al capolavoro di Mary Shelley ammicca più volte in maniera diretta, come quando appare il ritratto di Mary Shelley tra i quadri di famiglia nella villa del ricco signore con il sogno di salvare i dinosauri e, pochi minuti dopo, viene trascinato via da un dinosauro imbizzarito. Solo che il risultato è un film proprio brutto, un mostro aberrante, una creatura né carne né pesce, talmente amorfa da confidare che, se come il vero mostro creato da quel genio di Mary Shelley il film avesse autocoscienza, avrebbe come unico desiderio il proprio suicidio nel fuoco, per non far sapere a nessuno mai come si creano delle brutture del genere.

E dire che iniziava pure bene questo film, con una scena sottomarina abbastanza inquietante che finiva con la fine ingloriosa del solito idiota che resta indietro e, mentre esulta pensando di essersi appena salvato la vita sfuggendo a un qualcosa-Rex, viene pappato in un sol boccone da un gigasauro marino non meglio identificato.

Va bene che in questo genere di film, che puntano all’incasso facile grazie a fan che darebbero un rene per far continuare la saga per sempre, in fondo fare un buon lavoro potrebbe sembrare quasi sprecato. Ma a tutto c’è un limite e francamente non può bastare buttare nel calderone tre ingredienti scaduti, mescolare e vedere cosa viene fuori, perché poi quel che viene fuori è un film che non sta in piedi, a tratti ridicolo, senza nessuna credibilità interna nelle decisioni fondamentali, con addirittura delle sottotrame che pretendono di stupire ma che, per mancanza totale di spessore, ti passano davanti come enti non necessari moltiplicati per la sola esigenza di far succedere qualcosa.

Insomma, Il regno distrutto, in cui altri potranno anche cercare di vedere delle metafore della nostra società — dal razzismo alla migrazione al riscaldamento climatico — fallisce nel pur apparentemente non troppo complicato compito di portare avanti una idea talmente geniale da aver generato una delle saghe più celebri e adorate del mondo Occidentale: fare un film di dinosauri. E fallisce proprio male, tanto che ci si chiede come sia possibile che, alla prima di Madrid questa stessa pellicola sia stata salutata con dieci minuti di applausi a scena aperta.

E pensare che, una volta, quando a fare queste cose c’erano quei geniacci di Spielberg e di Crichton, libri e film come Jurassic Park — che a metà degli anni Novanta si vinse tre Oscar — ci sono serviti a far capire ai parrucconi che anche in quello che pensavano essere un prodotto di puro intrattenimento potevano trovare del gran cinema. Peccato che ormai, forse sulla scorta delle modalità di fidelizzazione delle serie tv, quando hai per le mani un franchise così grosso ti basta fare un attacco potente e un finale col cliffhanger e la partita l’hai portata a casa. Che pena però.

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