Non sparate sulle lobby, ma date loro delle regole: altrimenti finirà sempre come per lo stadio della Roma

I grillini sostenitori della trasparenza assoluta si ricredano. Anche loro (vedi vicenda Anzalone) fanno ricorso alle lobby. Pensare il contrario è totalitarismo. E se lobby devono essere, che siano aperte, trasparenti, e alla luce del sole

“Ci vediamo in Galleria”. È il saluto abituale fra onorevole e lobbista che si danno appuntamento alla Galleria Sordi per un nuovo aperitivo d’affari. Saluto abituale, intorno ai Palazzi del Potere romano. Leggi e provvedimenti non si deciderebbero nelle aule parlamentari, ma in caffè e terrazze, d’altronde. Lo dimostrerebbe l’ultimo presunto scandalo sullo stadio della Roma. Ma, forse, il problema non è solo italiano, ma rappresenta una fisiologia della democrazia. Chiosava Churchill: «Meno le persone sanno come vengono fatte le salsicce e le leggi e meglio dormono la notte».

Perché nelle leggi ci si infila di tutto, in modo non sempre raffinato, come prova l’espressione inglese “barile del porco” (pork barrel), per definire la pratica di inserire provvedimenti a favore di Tizio o Caio nei decreti “omnibus”. Se è vero, dunque, che il caso dello stadio di Roma rappresenta la perdita dell’età dell’innocenza per il Movimento Cinque Stelle, invischiato come gli altri, anzi, più degli altri in questo presunto inciucio, la verità è che una disciplina della rappresentanza degli interessi non è più rinviabile. Gli interessi plasmano la politica e fra di essi e i politici si instaura un vero e proprio rapporto di scambio. Tutta corruzione? Non proprio. La verità è che il politico ha bisogno del lobbista e viceversa. Perché la politica la fanno anche le lobby. E un loro coinvolgimento, senza scambi corruttivi, non rappresenta una patologia della democrazia, bensì una presenza fisiologica.

La democrazia reale è ben diversa da come se la immaginano gli italiani, non solo i populisti anticasta. Il potere non è una lotta per affermare l’agostiniano Bene comune o la rousseauiana Volontà generale. La politica è “chi prende che cosa, quando e come”, come scriveva Harold Lasswell. Non perché governino gli oligarchi, ma perché difficilmente ciò che va bene a me andrà bene anche al mio vicino. In Italia siamo ossessionati dall’idea che la buona politica sia quella senza interessi, mentre è vero il contrario.

Di principi astratti e non negoziabili si nutrono totalitarismi e teocrazie, mentre gli interessi rendono le persone razionali e propense a negoziare

Di principi astratti e non negoziabili si nutrono totalitarismi e teocrazie, mentre gli interessi rendono le persone razionali e propense a negoziare – che è un’altra virtù politica, basta chiamarla inciucio! -. La democraticità di un sistema pluralista deve risiedere nella trasparenza della rappresentanza degli interessi e nella circolarità fra le élites al comando, allora. Nelle dittature, comandano sempre gli stessi, nelle democrazie, élites che si formano competitivamente alle elezioni. Ma sono sempre élites, non rappresentanti di un popolo unico e indifferenziato, com’è nella retorica populista. Per questo, il sistema americano, dove il cittadino sa che il Tizio repubblicano è finanziato dalle lobby delle armi e il Caio democrat dalla Ong dei migranti, funziona bene. La democrazia americana è pratica, non vuole raggiungere obiettivi trascendenti ma politiche pubbliche concrete, nella consapevolezza che le società moderne non sono “organiche”, cioè caratterizzate da un popolo unico, ma pluraliste, cioè formate da ceti in competizione e contrapposizione. Le lobby, dunque, non solo rappresentano questi interessi plurali, ma sono lo strumento con il quale i politici superano “l’asimmetria informativa”.

Il politico regola fenomeni o mercati che spesso ignora: per acquisire queste informazioni, le lobby risultano spesso più utili dei tecnici della Pubblica amministrazione, che sono funzionari, non attori che hanno un’esperienza concreta del mercato da regolare. Il tema vero è che in un Paese dove il sistema delle lobby è regolamentato, il lobbista punta a convincere il politico con la dialettica, non con la corresponsione di utilità; oppure mira a convincere direttamente gli elettori della bontà della questione patrocinata. In Italia, questo rapporto, che è necessario, si occulta, dunque diventa torbido o criminale, mentre il politico blatera di astratti interessi dei cittadini, quando più prosaicamente sta realizzando “il particulare” di un ordine professionale, in spregio dell’interesse diffuso dei consumatori. Come ha dimostrato l’economista Antonio de Lucia nel recente libro “Lobbying, aziende e amministrazioni pubbliche”, dove le lobby non sono regolamentate, la corruzione cresce, danneggiando l’economia del Paese. Quando la rappresentanza è regolamentata, le performance generali della Pubblica amministrazione e dell’economia migliorano, perché il legislatore regola i settori in modo più puntuale (grazie alla consulenza del lobbista), perseguendo un interesse in modo chiaro perché, ci si immagina, che gli elettori lo abbiano votato proprio per fare quello che sta facendo. In questo modo, si sdogana lo stesso termine lobbismo, non più associato ad accordi sottobanco.

Dove le lobby non sono regolamentate, la corruzione cresce, danneggiando l’economia del Paese

Rendendo il lobbismo trasparente, imprenditori – che sono anche loro cittadini! – e politici potranno incontrarsi quando vogliono. Ogni volta, indicando il perché o il per come, con il divieto di offrire regali la cui entità rappresenti un tentativo di corruzione. Al primo incontro “segreto” in Galleria, scatterà l’arresto.

In definitiva, molti di questi scandali legati al rapporto politica-lobbisti nascono proprio da questo buco normativo e da una narrazione pubblica circa la “democrazia senza interessi” che è falsa ed ideologica. Accettare l’esistenza degli interessi, invece, è il modo migliore per perorarne alcuni che, senza avere la pretesa di rappresentare tutto il popolo, possano almeno soddisfare adeguatamente una maggioranza relativa di elettori.

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