Daniel Mendelsohn è uno di quegli studiosi che molti non definirebbero probabilmente “di primissimo piano a livello internazionale”, il cui profilo non può però non lasciare impressionati; soprattutto se si guarda alla sfilza di prestigiosi e accuratamente selezionati premi elencati sulla sua pagina di Wikipedia. Uno di quegli umanisti dal retaggio vecchio stile che non sembrano aver del tutto ceduto alla rigidità di metodi ormai (e per i nostalgici ‘alas’) desueti. Certamente non ha ceduto al pensiero, da lui citato più volte, secondo cui “non puoi iniziare a scrivere seriamente finché non hai letto tutto!” Anche se, leggendo il suo An Odyssey: A Father, a Son and an Epic (uscito per Knopf nel 2017) sono certa che deve aver provato.
Il titolo italiano di questo piccolo ed estremamente ben bilanciato quadro è Un’Odissea, uscito a marzo 2018 per la collana Frontiere di Einaudi. Proprio il titolo sembra già contenere tutto ciò di cui si parlerà. Quale preludio migliore per un mito reinventato da un buon Pierre Menard? Una piccola matassa di suggestioni che in inglese sono, in un certo senso, subito “spoilerate”, conservando la loro intrinseca e affascinante cripticità nella versione Italiana.
Solitamente questo termine, ‘odissea’, si utilizza per descrivere la qualità di qualcosa che si è fatto, portandolo a compimento, con grande fatica e fronteggiando una moltitudine di imprevisti. Un percorso pieno di intoppi, sballottamenti e ricorsi, non privo di un certo investimento sul piano emotivo. Una vera ‘odissea’ è qualcosa di complesso, il cui filo conduttore rischia di sfuggirci da un momento all’altro e che, al suo termine, ci lascia cambiati e forse maggiormente consapevoli.
Se da un lato può apparire come un’esclamazione, un attributo, una metafora (suggestione resa chiara dal gorgo ritratto al centro della copertina), dall’altro questo titolo suggerisce una più pacata interpretazione: ciò che conta è l’odissea della vita, la storia del rapporto tra padri e figli. Perché dopo tutto, di odissee, ce ne sono molte. Tutte diverse, tutte uguali eppure uniche.
E così, fin dall’inizio, la natura binaria di questo libro ci aggancia per non lasciarci più, portandoci attraverso il gorgo scandito dagli esametri del poema e dalle vicende della vita dell’autore.
Mendelsohn costruisce una narrazione solo apparentemente semplice e solo apparentemente diretta; dove la ‘scusa’, per così dire, è il racconto della partecipazione di suo padre al seminario da lui tenuto sull’Odissea, presso il Bard College (istituto famoso eppure poco conosciuto in Europa, di cui parla per esempio Antonio Tabucchi, nella raccolta Viaggi e altri viaggi, Feltrinelli).
Man mano che ci addentriamo nelle due storie che ci vengono presentate fin dall’inizio, ci imbarchiamo in un viaggio complesso e articolato. Ad ogni capitolo si pongono nuovi interrogativi sempre dotati di una doppia faccia: quella intellettuale da un lato e quella emotiva dall’altro. Ed è l’autore stesso, nella prima metà del libro, a rivelarci quasi tra le righe, quasi in modo indiretto, come la verità più importante che ci è mostrata da miti e poemi epici è sempre una verità psicologica.
Proprio in questa capacità di dire le cose sfiorandole risiede la maestria di Mendelsohn, il quale dimostra di maneggiare il mito di Odisseo al pari di un dotato psicoanalista junghiano, di un Lacan alle prese con il concetto di altro e di grande Altro, o di un Lévi-Strauss assorbito dall’idea di una narrazione che contenga la complessità della relazione tra le due facce di una stessa medaglia: quella luminosa e quella oscura. Con tutto ciò che sta nel mezzo. Ovvero: il viaggio.
Un concetto, quello di viaggio, nocciolo del poema e metafora delle metafore sulla vita, che è in questo libro menzionato e accarezzato sempre attraverso qualcos’altro. Perfino nell’esperienza concreta della crociera intrapresa da Mendelsohn e suo padre attraverso il Mediterraneo, sulle tracce dell’eroe-non-eroe Odisseo, il viaggio è affrontato attraverso le pagine del mito.
Mendelsohn riflette sulla natura del rapporto tra padri e figli; e sui figli che a loro volta diventano padri, esplorando uno dei legami più complessi, forti e importanti nella vita di un uomo. Una tematica antica vista attraverso gli occhi di uno studioso di classici, alle prese con la caducità della vita di suo padre. Vita che si è già conclusa nel momento in cui inizia a scrivere.
Forse un buon modo per comprendere davvero Mendelsohn è tenere conto della difficoltà di trovare un unico doppio di se stesso, di rispecchiarsi completamente in uno soltanto dei personaggi dell’Odissea. Mendelsohn (e noi con lui) è al contempo Odisseo, Telemaco e proiettivamente perfino il vecchio Laerte, che contempla l’azione altrui, ormai vicino alla propria fine, attento giudice in attesa.
[…]
Quando un uomo muore,
muore con lui la sua prima neve,
e il primo bacio e la prima battaglia…
Tutto questo egli porta con sé
[…] E del nostro stesso padre
tutto sapendo non sappiamo nulla.
Gli uomini se ne vanno….
e non tornano più
Non risorgono i loro mondi segreti.
(da Uomini di Evgenij Evtusenko)
Emergono così nel corso del romanzo temi come l’eredità dei genitori, il confronto intergenerazionale, la paura di non essere all’altezza (“pochi figli risultano uguali al padre, i più sono peggiori e solo pochi migliori”), la nostalgia del tempo perduto, il senso del desiderio e della scoperta di Sé, il timore che non conoscendo davvero i propri genitori si perda inevitabilmente qualcosa anche di se stessi e si possa sbagliare profondamente nel giudicarli. E la domanda: ma chi sono io? Sono la somma dei miei geni oppure ci sono eredità non genetiche altrettanto importanti? Sono, come diceva Chuck Palahniuk, il “combined effort of everybody I’ve ever known”?
In tutto questo, la mitologia greca non può non essere maestra e guida, se non altro per porsi le giuste domande e tentare, attraverso il viaggio, di trovare le risposte. Ed è così che la presenta Mendelsohn, la mitologia in tempi non sospetti. Quasi come se si trattasse ancora e sempre di quella Atena nei panni di Mentore, che suggerisce a Telemaco di salpare, di agire, di conoscere. Mendelsohn ci rivela curiosamente come, in occasione del primo incontro del seminario, avesse portato con sé alcuni libri per trarne, per lo più, un supporto psicologico. Una forma di sicurezza tutta sua, personale, scelta. Atena, Mentore, la dea della conoscenza che fa da guida e baluardo e si trasforma, con i secoli, in grandi tomi grigi rilegati e pesanti.
Le domande sull’identità e sulla vita, la paura dell’oblio, della mancata conoscenza, mancata esplorazione (e dunque senso) di noi stessi, così come dei nostri genitori, sono intrinsecamente connesse con la paura della morte. Ma l’Odissea e Un’Odissea ci insegnano ad affrontarla. Ci raccontano come altri la affrontano. Ci dicono di cosa si tratta. E in questo, Un’Odissea, ricorda l’opera di un altro grande scrittore americano (benché decisamente più sentimentale ed emotivo rispetto a Mendelsohn), Jonathan Franzen. Il quale, in uno dei suoi discorsi ci ricorda che in tutto questo immenso mare di imprevisti e contrattempi, cose non dette e azioni giuste o sbagliate, il dolore non ci ucciderà: “la realtà fondamentale della vita è che siamo vivi per un po’, ma prima o poi moriremo. Questa realtà è la vera causa della rabbia, del dolore e della disperazione. E voi potete fuggire da questa realtà, oppure, attraverso l’amore, accettarla.”
Franzen identifica l’amore come un motore intramontabile, ma quello che ci vuole dire veramente è che pur nella loro complessità, le cose della vita, della realtà, quando sono affrontate ci fanno sentire completi, protagonisti, in medias res: nel pieno della nostra personale e unica Odissea.