La disputa, occorre essere da subito molto franchi, non è di quelle epiche. Anzi. Ma, proprio per questo, assolve perfettamente al suo compito di segno dei tempi. Mala tempora. Questo il nodo del contedere
Carlo Calenda invita a fermare rapidamente Claudio Borghi e quest’ultimo corre dai Carabinieri a denunciare il primo. In sé, il nulla. Ma andando a vedere i commenti, nell’arena virtuale, si scopre dell’altro. Questo sì, inquietante. A chi gli chiedesse conto del suo agire, permettondosi di far notare come a una critica politica riguardo il proprio operato, in una democrazia si risponde argomentando e non correndo a presentare querela, l’economista di punta della Lega lasciava intendere che quella di Calenda poteva essere letta da qualcuno come un’incitazione a fermarlo, di fatto, fisicamente.
Ovvero, nel Paese che ha visto a terra i corpi di Biagi e D’Antona, a farlo fuori. Concetti che andrebbero soppesati con il bilancino più di una volta, prima di essere espressi. Ma tant’è, l’asticella della scontro politico ormai ha raggiunto vette che intimidirebbero anche il ricordo glorioso di Serghei Bubka. Ma c’è qualcosa nell’aria che deve far riflettere. E far paura, ancorché soltanto in prospettiva. Se infatti pensare che un uomo come Carlo Calenda possa additare al brigatista/rivoluzionario di turno Claudio Borghi come bersaglio politico legittimo fa sorridere, pensare che fra i seguaci Twitter e non dell’ex ministro dello Sviluppo economico possa esserci chi ritenga l’omicidio politico come mezzo per la risoluzione delle dispute non solo fa ribaltare nella tomba Max Stirner ma anche ribaltare dalle risate. Amare, molto.
Perché per quanto, ospite diIn Onda, qualche giorno fa l’ex ministro Claudio Minniti sia ricorso al suo solito sarcasmo calabro-british per sottolineare l’anomalia di un partito visceralmente anti-comunista come la Lega salviniana che rimane contemporaneamente l’ultimo baluardo del principio leninista di Stato e rivoluzione, inteso come potere conquistato e da riconquistare ogni giorno attraverso la lotta del popolo/avanguardia, c’è qualcosa di più profondo che travalica anche i paradossi e sconfina direttamente nella categoria del virtuale e del parallelo.
Di fatto, se analizziamo anche in maniera sommaria, gli scambi sempre più frequenti di “cortesie” fra i sostenitori del governo e gli “altri” sui social network, assistiamo a una riedizione 2.0 in punta di mouse e tastiera degli Anni di piombo, un qualcosa di così sideralmente distante per il nostro Paese da essere, di fatto, dietro l’angolo. Gli hashtag sono moderne P38 con cui assaltare il cielo del dissenso verso il “Governo del cambiamento”, i troll sono quinte colonne da infiltrare, la minaccia e l’improperio violento sono nulla più che il necessario “innalzamento del livello di scontro” in una società parallela che è identica a quella reale ma che mostra come unica differenza la mancanza totale di freni inibitori. E, soprattutto, di buon senso. O senso della misura, della proporzione, quantomeno.
Un hashtag mi ha spesso indotto a leggere il contenuto di alcuni tweets: #prontoallalottaarmata. Spuntava ogni qualvolta la solidità e la tenuta stessa del governo giallo-verde veniva messa in discussione da qualcosa: un atto della magistratura (vedi Diciotti o i fondi confiscati alla Lega), un articolo di giornale, un’azione politica dell’opposizione, il giudizio di un’agenzia di rating, il valore di un titolo in Borsa. Un ponte che crolla. Ora, il problema non è se chi scrive quella frase – esattamente come chi promette di “andare a prendere sotto casa” chi osa sfiorare anche solo con il pensiero il ministro dell’Interno – lo farà o farebbe davvero, bensì la facilità con cui in questo Paese un elettorato di fatto borghese come quello leghista e, per la maggior parte dei casi, grillino arrivi a scomodare parole d’ordine che in questo Paese non solo state aliene: noi non siamo la Francia di Action Directe, sverniciata violenta su un muro fatto di opposizione sociale democratica e avanguardismo un po’ ga-ga alla Guy Debord. Noi siamo l’Italia della Brigate Rosse da un lato e dei NAR dall’altro, siamo Paese gemello nel sangue della Germania della RAF. Non abbiamo vissuto la guerra a bassa intensità di Irlanda del Nord e Paesi Baschi in quegli anni bui ma, per non farci mancare nulla, abbiamo visto piazze, stazioni e treni volare in aria con il loro carico di vite e aspettative spazzate via dal cosiddetti “opposti estremismi”. E, soprattutto, dai loro burattinai. Basta conoscere un leghista medio o un grillino medio, cosa che appare abbastanza semplice stante i risultati elettorali raggiunti il 4 marzo (certamente impresa più facile di quella che è stata per anni trovare, in carne e ossa, quella figura mitologica che era l’elettore a parole del Partito Liberale di Altissimo), per capire che, se l’anagrafe li condanna come condanna me, un’arma l’hanno presa in mano solo durante la najae mai più. E che, nel 99% dei casi, come quasi tutti noi, rischierebbero di spararsi in un piede, se dovessero azzardarsi ora a quell’impresa estrema in nome dell’ideale. Anzi, del contratto.
Perché significa che si è rotto qualcosa e non solo i coglioni, come farebbero notare gli apologetici di governo dell’uomo qualunque al potere e della maggioranza silenziosa 2.0: significa che sono saltati gli schemi prima di tutto della percezione della realtà
Ma resta il fatto che, nonostante quelle mani siano pronte al sacrificio solo quando battono una tastiera, magari subito prima di ordinare un docciaschiuma al bergamotto e vetiver su Amazon o lamentarsi con l’ennesima mail perché DAZN non funziona con la pioggia e hanno perso tutto il secondo tempo della partita, quelle parole sono in effetti pietre: che non sfasciano vetrine per protesta e ma che lapidano a morte il dibattito politico, aspro quanto lo si voglia. E quanto, in effetti, deve essere in una democrazia compiuta. moderna e matura. Ci sono dei potenziali Renato Curcio e Mara Cagol in giro, nel nostro condominio, al bar dove prendiamo il caffè, sul posto di lavoro o fra gli avversari del calcetto? Ne dubito. Così come non vedo all’orizzonte molti Ulrike Meinhof e Andreas Baader, capi di quella RAF che tramutò la teoria dell’insurrezione armata in prassi quotidiana in una Germania divisa e avamposto di due mondi, fino alla morte da moderna e urbana tragedia greca nel carcere di Stammheim. Ma questo, se da un lato deve ovviamente rappresentare un bene, dall’altro tende a porre una domanda che inquieta ancora di più. L’immagine di copertina è tratta proprio dal film che raccontava le gesta della RAF, La banda Baader-Meinhof e mostra quella che era diventata la quotidiana della Germania Ovest in quegli anni, così come nell’Italia del brigatismo: l’omicidio politico.
Al netto del carattere di smargiassata fuori luogo e di pessimo gusto di quelle promesse di morte e rivolta sui social, al netto del profilo da Alberto Sordi in Un borghese piccolo piccolodi chi le scrive, un borghese – appunto – spaventato ed esasperato (anche con ragione, nessuno lo nega) che si rintana prima nel culto dell’uomo forte e poi, una volta giunto con lui al potere, si eleva al ruolo di suo pretoriano, di guardia leninista di Stato e rivoluzione perché vede in quell’ipotesi di esecutivo l’occasione storica di non essere più numero o codice ma mostrina o moschetto, davvero qualcuno in nome della lotta agli sbarchi di clandestini, del migrante a zonzo per la città che piscia per strada, del reddito di cittadinanza, delle vaccinazioni facoltative, della flat tax o della rimodulazione di vitalizi e Legge Fornero, sarebbe pronto a prendere il posto di uno dei due personaggi ritratti in sella alla motocicletta? Sparare e ammazzare, insomma. Perché, paradossalmente, se l’idea stessa di uccidere per un ideale è qualcosa di talmente estremo da scuotere nelle fondamenta la stabilità emotiva di ognuno di noi, promettere – anche falsamente e per puro jogging dell’ego – di essere pronto a farlo per onorare il contrattodi governo, per il Decreto dignità, per la nazionalizzazione di Autostrade, fa venire brividi ancora più profondi.
Perché significa che si è rotto qualcosa e non solo i coglioni, come farebbero notare gli apologetici di governo dell’uomo qualunque al potere e della maggioranza silenziosa 2.0: significa che sono saltati gli schemi prima di tutto della percezione della realtà, prima ancora che di quella delle conseguenze penali che un atto di lotta armata può contemplare per gente che, immagino, paghi anche le multe per divieto di sosta e quelle per mancata differenziazione dell’umido. Si parla a vanvera e, oltretutto, nemmeno capendo quale sia il livello di abbassamento ideale cui si tende, minacciando sfracelli come un tempo si faceva brandendo la Hazet 36. Claudio Borghi ha tutto il diritto, se si sente minacciato nella sua incolumità, di denunciare Carlo Calenda per il suo tweet, sia chiaro. Sapete perché l’ultima frase è sottolineata?
Non perché la ritenga degna di attenzione visiva supplementare, né perché sia particolarmente intelligente. Anzi. Ma perché vorrei che la rileggeste e vi rendeste conto quali siano i nomi che hanno dato vita a una disputa terminata dai Carabinieri, perché in odore di istigazione a delinquere con finalità politiche. Ecco dove siamo arrivati. E, attenzione, perché la sinistra non ha un residuo di colpa in tutta questa situazione. Ne ha tonnellate. In primis, per averne creato le condizioni politiche. In second’ordine, perché fatta pace – come si è fatto – con il cosiddetto album di famiglia, occorrerebbe fare pace anche con sé stessi. Ma, con il passare dei giorni, appare chiaro come sia invece molto più comodo unirsi al chiasso della guerriglia virtuale, piuttosto che superare la fase delbersaglio/funzionee scendere per strada, sì. E anche armati. Ma di idee e realismo, figli legittimi dell’autocritica. Ma qui, temo, siamo ancora al leninismo più duro, quello dell’intangibilità e dell’infallibilità. Qualcuno regoli l’orologio del buon senso, senza scomodare quello della Storia, perché se una cosa deve insegnarci quanto sta accadendo in questi giorni in Sassonia è che, come cantava il compianto Enzo Jannaci, basta uno che si monta le testa per far finire la festa. Anche quella paradossale, parossisistica e sempre più patetica della politica italiana vissuta come un Truman Show. O come un congresso permamente che assomiglia sempre più alla Fortezza Bastiani.