Il testamento senza eredi di Juncker: tante belle parole, ma il futuro dell’Europa è sovranista

Una standing ovation ha salutato l’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione dell’attuale presidente della Commissione. Tutto, in realtà, sembra andare nella direzione opposta: a partire da un Ppe sempre più subalterno alle destre nazionaliste

In un lontano giugno del 2014, il Sun intitolava «Sei ragioni che fanno di Juncker l’uomo più pericoloso d’Europa». Un catalogo di notizie, dati, fatti e vissuto che faceva dell’ex premier lussemburghese, longevo capo di Governo sconfitto al voto dopo diciotto anni a causa di uno scandalo di spionaggio interno, la peggiore candidatura a Presidente della Commissione Europea a cui si potesse pensare. Una nomina non casuale, però, se si pensa che fu un plateale accordo di scambio tra socialisti e popolari. L’idea era semplice tanto da pensare quanto da mettere in pratica: avallare la nomina di un membro del Partito Popolare Europeo, seppur considerato non all’altezza dai più, a patto che venisse attuata una maggiore flessibilità sulle regole di bilancio, richiesta anzitutto da Italia e Francia. Sembrava aprirsi così una nuova stagione europea, l’inizio di un sogno chiamato Unione politica. Nonostante Jean-Claude Juncker fosse il bersaglio del fuoco incrociato della destra euroscettica e di una parte della sinistra e dei media, tutti si finsero convinti che sarebbe riuscito a rilanciare l’immagine dell’Eurozona e trainare il Vecchio Continente fuori dalla palude di un’economia in stagnazione.

Ci sarebbe allora da pensare che, per alcuni, non deve essere stata una grande sorpresa se, appena quattro anni dopo, Jean-Claude Juncker si è preparato a servire il proprio lascito politico sul piatto dell’annuale discorso sullo stato dell’Unione alla Plenaria nell’Europarlamento a Strasburgo. Un momento che dovrebbe segnare l’avvio del dialogo con il Parlamento europeo e il Consiglio in preparazione del programma di lavoro annuale della Commissione e che invece si è tradotto in un testamento politico senza eredi.

«Alle elezioni europee del 2019 vorrei che dicessimo no al nazionalismo malsano e sì al patriottismo illuminato. Il patriottismo è una virtù. Il nazionalismo è un veleno pernicioso», così esordisce. Appare rilassato, nessuna remora linguistica o paura politica. Forse perché, questa volta, dopo aver annunciato di non voler proseguire la carriera, l’ex guida politica del Granducato sa benissimo che quello che lo aspetta è un ritiro imminente e un anno all’insegna delle elezioni. Non ha nulla da perdere, dunque. Microfono acceso, sicurezza di chi sa difendere i propri privilegi, qualche sguardo ai fogli, un po’ di occhiaie per la fitta agenda politica. Ormai veterano delle istituzioni europee, Juncker non si fa mancare l’arte oratoria tipica di chi non teme l’evidenza dei fatti avversi. A fronte di un’Europa in evidente sofferenza, con partiti populisti ed euroscettici che continuano a guadagnare consensi, il Presidente della Commissione Europea ricorda che «La Commissione è solo un episodio, un breve momento nella lunga storia dell’Ue. Il bilancio non è ancora arrivato, quindi oggi non presenterò un bilancio di cosa abbiamo fatto in quattro anni, perché il lavoro continua per fare dell’Ue imperfetta un’Unione ogni giorno più perfetta».

Eppure, nonostante queste premesse, un piccolo bilancio si permette di farlo: «Dopo dieci anni l’Europa ha voltato pagina sulla crisi economica arrivata da fuori. La crescita è ininterrotta da 21 mesi con 12 milioni di posti di lavoro creati dal 2014. Gli investimenti sono tornati in Europa». «Noi europei – ha sottolineato – siamo una forza di cui non si può più fare a meno. Se l’Europa parla con una sola voce, riesce a imporsi e deve agire con un fronte compatto. Bisogna quindi lavorare per un’Europa più unita e forte». Se, da un lato, il Pil degli Stati Membri risulta realmente aumentato, dall’altro il Presidente non reca alcun riferimento alle modalità, il cosiddetto “prezzo da pagare”. Se da un lato, è vero che la disoccupazione risulta in larga parte scesa, dall’altro non si tiene conto di come viene calcolata. Nessun accenno quindi all’aumento della precarietà, dei nuovi posti di lavoro a tempo determinatissimo, delle crescenti disuguaglianze di cui lo stesso Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione europea, ha più volte allarmato. Una retorica che sembra voler posizionare l’Unione in cima alla catena internazionale e prendere così le distanze da altre potenze mondiali, come gli Stati Uniti di Donald Trump, con cui però il numero uno della Commissione ha festeggiato il raggiungimento sull’intesa sui dazi e lo stop al possibile rialzo delle tariffe sulle auto per timore di una possibile guerra commerciale.

Con sicurezza, ricorda che L’Europa è un “progetto di pace”. Per questo «deve restare un continente di apertura e tolleranza, non sarà mai una fortezza che volta le spalle al mondo» aggiungendo, qualche parola dopo, che «Oggi presentiamo una proposta per il rafforzamento della guardia frontiera e guardacoste europee con un aumento di funzionari da qui al 2020 per arrivare a 10mila unità». La sacra Fortezza Europa, sempre rassicurante per i suoi cittadini e un po’ meno per le libertà di movimento e di autodeterminazione. Un quadro che vuole mediare anche sul tema della migrazione, con dati elevati di accoglienza sul fronte migranti regolari e di respingimento degli irregolari. «Gli Stati membri non hanno ancora la giusta proporzione tra responsabilità per la propria sovranità e la necessaria solidarietà tra loro – aggiunge – io sono e rimango contro i confini interni. Laddove esistenti, debbono essere rimossi: se rimangono, dovrebbero costituire un inaccettabile passo indietro per l’Europa».

Avrebbe avuto senso il discorso di Juncker se l’intero Partito popolare europeo si fosse schierato in modo univoco contro il nazionalismo anti-immigrati di Budapest, concordando una strategia comune. Ma il partito di maggioranza continua ad essere espressione del reale stato dell’Unione: scomposta, disorganizzata, con i fianchi mangiati dai nazionalismi e dai sovranisti, impaurita dalla potenza elettorale dei partiti populisti. Il voto europeo di maggio si conferma essere l’unica vera posta in palio

Anche sulla Brexit, Juncker si permette di scagliare un’enorme freccia contro le politiche di negoziazione portate avanti da Theresa May: «Accettiamo, ma deploriamo, la decisione del Regno Unito di lasciare l’Unione europea. chi esce non fa più parte del mercato unico e non è possibile farne parte in aree scelte». «Siamo contrari alla reintroduzione di un confine fisico nell’Irlanda del Nord», ha aggiunto. E, ancora: «dopo il 29 marzo 2019, il Regno Unito non sarà mai un paese terzo ordinario, ma continuerà sempre a essere un partner vicino per sicurezza e questioni economiche».

Eppure, a conti fatti, tutto appare andare nella direzione opposta a quella descritta e nulla di quanto detto sembra potersi realizzare. Appena dopo la standing ovation a fine discorso, una prima smentita alle rassicurazioni di pace, forza ed unità arriva proprio poco dopo, quando il Parlamento è stato chiamato a votare sulle violazioni dello stato di diritto nell’Ungheria di Viktor Orban. Il report Sargentini, presentato dall’europarlamentare verde lo scorso aprile alla commissione per le Libertà civili, la Giustizia e gli Affari interni del Parlamento, che mette l’Ungheria sotto accusa per il mancato rispetto dei valori europei, è stato approvato aprendo così la procedura sanzionatoria prevista dall’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea. Un episodio che ha spaccato dall’interno non solo il Partito Popolare Europeo, ma anche il governo a guida giallo-verde italiano, riuscendo a riunire Forza Italia e Lega sotto il voto contrario e sotto la bandiera della libertà di difesa dei propri confini, riconfermando Orban un vero leader di rottura. Avrebbe avuto senso il discorso di Juncker se l’intero Partito popolare europeo si fosse schierato in modo univoco contro il nazionalismo anti-immigrati di Budapest, concordando una strategia comune. Ma il partito di maggioranza continua ad essere espressione del reale stato dell’Unione: scomposta, disorganizzata, con i fianchi mangiati dai nazionalismi e dai sovranisti, impaurita dalla potenza elettorale dei partiti populisti. Il voto europeo di maggio si conferma essere l’unica vera posta in palio. Altro che il futuro dell’Unione.

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