Come si comporta una macchina che viaggia a cento chilometri orari quando incontra una montagna? Rallenta, arriva sulla cresta e se l’autista tiene premuto sull’acceleratore in maniera uguale a prima della salita, allora in fondo alla discesa corre a doppia velocità. Usa questa immagine, “sporca” ma esplicativa, Luca Lombroso, meteorologo, divulgatore scientifico cresciuto professionalmente all’Osservatorio Geofisico dell’Università di Modena-Reggio Emilia, per descrivere quello che è accaduto in Trentino-Alto Adige lo scorso weekend. Quando i venti hanno raso al suolo 1,5 milioni di metri cubi di foresta, un volume pari al legname che viene tagliato nell’intera regione in tre anni. A colpire l’immaginario di stampa e opinione pubblica sono state le ferite inferte dal maltempo alla cosiddetta “Foresta dello Stradivari” e al Parco di Paneveggio, ma in realtà la diffusione dei danni è più a macchia di leopardo: circa 700mila metri cubi infatti sono caduti a terra fra le Dolomiti della Val di Fiemme sul versante destro, l’area del Primiero, Passo Lavazzè. Mentre sul versante della Catena del Lagorai «sembra tutto intatto, i danni sono contenuti» spiega Francesco Della Giacoma, ex responsabile del demanio forestale Fiemme-Primiero e oggi vice Presidente di Pefc Italia, la più grande organizzazione al mondo di certificazione forestale, che è andato a toccare con mano la situazione proprio in queste ore e invita alla cautela anche sulla stima del danno. Le altre zone colpite duramente sono il lago di Carezza e la foresta del Latemar. Tutti luoghi considerati tesori turistici delle province autonome di Trento e Bolzano e patria dell’economia del legno, sulla cui filiera è necessaria ora un’analisi dei danni monetari, con una certezza: «In Trentino si tagliano 450-500mila metri cubi all’anno – spiega Della Giacoma –: in Val di Fiemme ci sono sei o sette “riprese” a terra, sul mercato ci sarà aspettativa di tanto materiale che arriva quindi il valore si abbasserà un po’, mentre dal punto di vista turistico ciò che ho visto non è drammatico».
Ma cosa è successo? «Quello che accaduto in gergo si chiama “downslope wind” – spiega il meteorologo Luca Lombroso che su Il Meteo.net ha pubblicato un dettagliato articolo sulla vicenda –: si chiamano effetti orografici sui venti in caduta di pendio: la forma della valli e quella delle montagne hanno incanalato il vento rendendolo ancora più intenso, per questo motivo da alcune immagini si vedono “strisciate” enormi rase al suolo e altre meno danneggiate». Venti che già di per sé a viaggiavano a velocità fuori scala per le montagne del nord-est: «Anche le stazioni meteo hanno subito danni – specifica lo scienziato –: A Passo Rolle, una stazione amatoriale dell’associazione Meteo Triveneto ha registrato vento a 217 km/h. In Friuli Venezia Giulia 202 km/h ed è il dato ufficiale, in Veneto 190 km/h. A quelle velocità non rimane in piedi niente». Per Lombroso, stando a questi dati, alcune delle polemiche tirate fuori negli ultimi giorni da cittadini e stampa locale in Trentino, nel tentativo di individuare responsabilità immediate di quanto accaduto, come quelle sulla mancata biodiversità e la monospecificità (è quasi tutto Abete rosso, il legno commercialmente più valido, ma allo stesso tempo ha un rapporto altezza-grossezza dell’albero sbilanciato a favore della prima e delle radici non troppo profonde che ne fanno una delle vittime “preferite” del vento), oppure l’eccessiva presenza di “boschi coetanei” (che hanno la stessa età), sono polemiche che «lasciano il tempo che trovano, perché si guarda il dito e non la luna». Per il meteorologo «il problema è che il vento tirava a 210 km/h. Dal punto di vista meteorologico non è stato un uragano e nemmeno una tromba d’aria, però nella scala Beaufort si definisce post uragano quando il vento è andato oltre i 119 km/h. Le velocità che abbiamo avuto sono quindi paragonabili quelle di un uragano di categoria tre: nemmeno un grattacielo è dimensionato per reggere quella categoria».
«Non ci deve apparire eccezionale quello che è successo, vedremo in futuro altri fenomeni che non ci si aspetta perché abbiamo condizioni di non stazionarietà del clima. Lo so che può apparire catastrofista ma è così. Ciò che in passato era eccezionale non lo è più oggi».
È quello che Serena Giacomin, fisica dell’atmosfera e meteorologa del centro Epson, raggiunta al telefono chiama un evento «d’intensità definibile come epocale, nel senso di fuori dalle statistiche storiche di un determinato territorio: in Friuli in 72 ore sono caduti 900 ml di pioggia. Si può dire che il cambiamento climatico sta manifestando i suoi effetti con questi eventi estremi». La causa ultima di tutto ciò? Chi studia il clima è concorde: «l’ipotesi su cui la letteratura scientifica lavora è quella della cosiddetta “amplificazione artica”» risponde Luca Lombroso. «Il ritiro dei ghiacci del Polo nord implica cambiamenti di equilibrio delle temperature globali che causano come conseguenza un rallentamento della “corrente a getto”, una sorta di clima atmosferico che scorre generalmente a 10mila metri di altitudine. Aumentano gli scambi termici fra Polo nord ed Equatore, le situazioni dette “nord-sud”che portano gelo, freddo, neve e quelle “sud-nord” che portano alle grandi piogge». «Non ci deve apparire eccezionale quello che è successo, vedremo in futuro altri fenomeni che non ci si aspetta perché abbiamo condizioni di non stazionarietà del clima. Lo so che può apparire catastrofista ma è così. Ciò che in passato era eccezionale non lo è più oggi».
Capiterà ancora sostengono i due meteorologi, non necessariamente con questa intensità ma non è da escludersi. Per Serena Giacomin «il messaggio da far passare è quello di un’ottica di adattamento del territorio ad eventi sempre più frequenti. Alla base ci vuole prevenzione e cura del territorio» che comunque non basta perché, ad esempio, «in quelle zone colpite del Triveneto sembra che il territorio sia curato, non come tanti altri d’Italia dove si può parlare di dissesto dovuto a incuria e cementificazione selvaggia». Per questo motivo la meteorologa di Epson invita a non guardare ai cambiamenti climatici con la rassegnazione che a volte colpisce la stessa comunità scientifica: «Dopo la stesura dello “Special Report IPCC 1.5°” ho sentito parlare del fatto che “non c’è più niente da fare, dobbiamo pensare all’adattamento e non alla mitigazione”. Questo è un errore madornale: è vero che l’adattamento serve già oggi – e alcuni esempi esistono, come la pianificazione forestale che la Svizzera ha cominciato a fare da un quindicennio a questa parte – perché ci sono pesanti effetti del global warming» chiude Giacomin, «ma dobbiamo assolutamente pensare alla mitigazione, da qui ad a 50 anni, perché ogni decimo di grado in più di surriscaldamento delle temperature globali avrà effetti esponenziali e potenziati che renderanno più difficile la messa in sicurezza stessa del territorio. Pensare solo all’adattamento, dal mio punto di vista, significa portare avanti una politica e una strategia scriteriate, che da sole non stanno in piedi».