StoriaLa Grande Guerra è stata un’idiozia. Ma non commemorarne la vittoria è un’idiozia più grande

Perché ridurre il centenario di Vittorio Veneto a una festa da sovranisti è una stupidaggine. Anche se la prima guerra mondiale è stato un massacro insensato, volerla leggere con occhiali politici o ideologici significa semplicemente essere storicamente ignoranti

Un fotogramma del film “La grande guerra” di Mario Monicelli

Assalto nella puzza ubiqua di cognac, ad ogni “Hurrà” dei nemici è come se si aprisse una cantina. In mezzo a polvere, cadaveri e pallottole c’è un ufficiale, un capitano, con in mano una pistola e nell’altra un elmetto. Urla agli austriaci. “Vili, venite avanti se avete coraggio, vili!”. Prova a calcarsi in testa l’elmetto ma con la mano sbagliata. Si picchia in testa la pistola, una, due, tre volte. Ad ogni colpo il sangue gli cola di più sulla faccia, ma è inebetito e non se ne accorge. “Il capitano sembra una furia insanguinata“. Urla: “Hurra!”.

La scena la racconta Emilio Lussu in Un anno sull’altipiano. Un libro breve dove c’è tutto: la puzza e il nonsenso della guerra contemporanea, il mostro idiota che non ha problemi a divorare chiunque, inclusi i generali il cui senso dell’eroismo ottocentesco si scontra con col dominio contemporaneo della tecnica. Esistono già mitragliatrici che funzionano perfettamente, cannoni dalla gittata di centinaia di chilometri, obici, mortai, gas asfissianti, lanciafiamme, bombe a mano. È già guerra moderna. Ma contro avversari immobilizzati nelle trincee, o in movimento su spazi ristretti. Risultato: pazzia. Per i soldati: dalla Grande Guerra viene diagnosticato per la prima volta nella storia il disturbo postraumatico da stress, i tremori, le ossessioni, l’incapacità di parlare, il rivivere costantemente il trauma, l’evitare qualsiasi cosa, anche simbolica, che lo ricordi. Per i comandanti: il senso appunto dell’eroismo che, in un contesto moderno, li fa apparire grotteschi e in ultima analisi una massa di fanatici. Lussu tratteggia in modo perfetto il generale Leone -vero nome, Giacinto Ferrero-, che ordina esecuzioni a freddo per una parola di troppo, impone di sperimentare sul campo corazze che non funzionano, facendo uccidere decine di uomini dai proiettili austriaci, ordina gesti di eroismo assurdi e che costano vittime. Ferrero è morto tranquillamente nel suo letto nel 1922.

Dalla Grande Guerra viene diagnosticato per la prima volta nella storia il disturbo postraumatico da stress

Si è detto che la cosiddetta Grande Guerra è scoppiata non si sa bene perché, se non per una sorta di cupio dissolvi. Se è così viene naturale pensare che da una causa insensata seguano effetti insensati. Che la catena causa/effetto segua, analogicamente, le leggi della fisica. Che l’onda di stupidità si sia riversata dall’alto in basso, dai leader politici che hanno fatto scattare le clausole delle alleanze, alle macchine da massacro, ai generali idioti come galli, ai soldati inebetiti dall’alcol e distrutti da cimici e paura. La Grande Guerra è il primo collasso dell’Europa. L’inutile strage, come la definì Papa Benedetto XV. 1.240.000 morti italiani, tra civili e militari (la seconda guerra mondiale ne ebbe molti di meno: 472.300).

Come si vede appena si parla di guerra si finisce per parlare di eterogenesi dei fini (a dirla elegantemente) o di idiozia (a dirla terra terra). La Grande Guerra si è conclusa, per noi, con la vittoria nella battaglia di Vittorio Veneto, il 4 novembre 1918. A cento anni esatti di distanza sembra la plastica rappresentazione del conflitto perenne che chiamiamo Storia. Alla faccia di quel whishful thinking che chiamiamo progresso (o storicismo), la Storia, come la guerra, è opaca, non dominabile, piena di sangue, di polvere e di puzza. Non si capisce in quale direzione vada, o ammesso che vada in una qualche direzione, lo si capisce solo a considerevole distanza.

Ed è perfettamente chiaro che la storia sia in genere antipatica a uno spirito del tempo che vorrebbe sistematizzare tutto. O in alternativa inquadrare tutto in una visione ideologica. In breve, guardare la storia con gli occhiali di oggi, fare compìte listarelle di buoni e cattivi, come nel ridicolo test fascistico nel libro di Michela Murgia, che non si capisce cosa abbia a che vedere col fascismo come periodo storico. E si capisce perfettamente perché la si vorrebbe abolire dagli esami di maturità. Non è cattiva volontà, è semplicemente che, in epoca di crollo delle ideologie, la Storia è un oggetto epistemico che tende a sfuggire.

Un secolo dopo è facile, facilissimo, vedere la Grande Guerra come una espressione di sovranismo, ma equivale a mettersi comodissimi occhiali ideologici

E arriviamo al fatto che secondo molti il 4 novembre di un secolo fa non sarebbe da commemorare, se non come anniversario di una strage. Una guerra decisa dai potenti e pagata con carne e sangue dalle classi subalterne. Probabilmente è vero: la Grande Guerra, ben più della seconda guerra mondiale che aveva lo scopo di fermare Hitler, è stata la più potente rappresentazione dell’assenza di scopo.

Ma sarebbe stato meglio non combatterla? La prima obiezione la si trova già nel feroce reportage di Lussu. Si racconta di un ammuntinamento tra i soldati. E di un ufficiale, comandante di compagnia (!), che sostiene sarebbe meglio girare le armi verso i generali, e verso Roma. “Questa non è una guerra, è una miserabile strage” che proviene dalla “incapacità dei nostri capi” che sono “una banda di speculatori”. Un altro comandante di compagnia (Lussu stesso, che non era un miltarista, anzi come politico, come fondatore di Giustizia e Libertà, come confinato durante il fascismo, come esule in Francia, ha acquistato tutte le credenziali antibellicistiche che servono) sostiene che il militarsimo è quello degli imperi centrali, e che se non si vincesse questa guerra “ci troveremmo tutti marciare al passo dell’oca”.

Ed è questo il punto principale del discorso. Un secolo dopo è facile, facilissimo, vedere la Grande Guerra come una espressione di sovranismo, ma equivale a mettersi comodissimi occhiali ideologici, a confortevole distanza storica, per decifrare qualcosa che, da vicino, aveva altri connotati. È, né più né meno, un giudizio storicamente anacronistico. Storicamente ignorante, politicamente equivocabile e strumentalizzabile.

Alla cosiddetta grande guerra, hanno partecipato, pagando in proprio, molti soldati convinti di quello che facevano. Convinti o dagli alti ideali o da considerazioni politiche, o semplicemente dalla umana vergogna di restare vivi mentre altri ci rimettevano la pelle. Succede anche questo, ed è un sentimento umano da non disprezzare

E, tra l’altro, alla cosiddetta grande guerra, hanno partecipato, pagando in proprio, molti soldati convinti di quello che facevano. Convinti o dagli alti ideali o da considerazioni politiche, o semplicemente dalla umana vergogna di restare vivi mentre altri ci rimettevano la pelle. Succede anche questo, ed è un sentimento umano, e non facilmente giudicabile, nè disprezzabile. Migliaia di “eroi” in quella situazione e in quel contesto inafferrabile per noialtri. Come i protagonisti raccontati con spirito umoristico/paradossale da Mario Monicelli (un comunista orgoglioso, e tutto dedito a corteggiare il rapporto con la morte) nel film La grande guerra: due eroi per caso che muoiono senza rivelare i piani militari italiani ai nemici, quindi tecnicamente da eroi, ma urlando, vedi il personaggio interpretato da Alberto Sordi, “sono un vigliacco!”. Ecco, le celebrazioni per il centenario di Vittorio Veneto dovrebbero servire a questo. Rendere gratitudine a persone che hanno pagato una mobilitazione, anche se lo scopo è controverso, non chiaro, opaco. Non farlo vuol dire pensare di possedere le chiavi della storia. Un perfetto atto di rimozione. Siamo uomini o neoprimitivi?