Dopo la svolta nel caso di Stefano Cucchi con la confessione del carabiniere Francesco Tedesco, e grazie al potente film di Alessio Cremonini, si è tornati a parlare di abusi in divisa. Ma un aspetto poco affrontato resta il legame tra questi casi di morte sospetta e l’ambito della salute mentale. Ancora oggi, infatti, tra i decessi di cittadini per mano delle forze dell’ordine, non sono pochi quelli legati alla pratica poco limpida del Trattamento sanitario obbligatorio (TSO), che consiste nel sottoporre una persona a cure mediche contro la sua volontà. Non è un procedimento esclusivo dell’ambito psichiatrico, ma è in questo campo che è applicato più di frequente, nello specifico per i disturbi psicotici (schizofrenia, paranoia, fasi psicotiche maniacali).
È in corso proprio in questi mesi un processo legato al caso molto noto di Mauro Guerra, ucciso dal maresciallo Marco Pegoraro durante un TSO. Nel 2015 Guerra è un 32enne che abita sul confine tra Rovigo e Padova. Una mattina d’estate, per motivi poco chiari, viene convocato alla caserma dei carabinieri. Durante il colloquio, i militari decidono che Guerra è “violento e pericoloso” e che deve essere sottoposto a un TSO. Non hanno autorizzazione medica né un mandato giudiziario, quindi Mauro si rifiuta di seguirli. Inizia così una lunga trattativa che porta i carabinieri fino a casa del ragazzo.
Con le ore la situazione si fa sempre più tesa: Mauro si allontana nei campi, i carabinieri lo inseguono, uno lo afferra, Mauro lo colpisce e il maresciallo Pegoraro, poco più indietro, fa fuoco, uccidendolo. Il tutto è documentato da un video, girato dai carabinieri stessi e mandato in onda quest’estate da Chi l’ha visto?“Lo hai beccato, maresciallo?”, chiede un carabiniere dopo gli spari “Sì.”risponde Pegoraro. “Hai fatto bene, marescià, hai fatto bene. Quel bastardo, figlio di t***a.”
Pegoraro al momento è sotto processo con l’accusa di omicidio per eccesso colposo di legittima difesa. Il corpo di Mauro, dopo essere stato colpito, è rimasto a terra per quasi tre ore, senza che nessuno verificasse i parametri vitali e senza che ai familiari, testimoni diretti dell’accaduto, fosse permesso di avvicinarsi. Quello di Mauro non è un caso così isolato. Sempre nel 2015, Andrea Soldi, seduto sulla sua panchina preferita in piazza Umbria, a Torino, è stato avvicinato dal suo psichiatra, accompagnato da un’ambulanza e tre vigili urbani. Per costringerlo a ricoverarsi lo ammanettano, lo stringono per il collo e lo caricano a pancia in giù sulla barella. Muore soffocato prima di arrivare in ospedale.
Si tratta di un provvedimento delicato, che sospende la libertà della persona. Esistono inoltre molte zone grigie nel procedimento: non è chiaro per esempio chi debba far eseguire materialmente l’ordinanza del sindaco: se la polizia, i carabinieri o i vigili
Qualche mese prima, nel salernitano, era toccato a Massimiliano Malzone, deceduto in SPDC (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, cioè l’unità di ricovero dei reparti di Psichiatria) a causa dei molti neurolettici che gli erano stati somministrati durante il ricovero. E ancora: l’ex calciatore Riccardo Magherini, morto, come Soldi, per asfissia posturale nel 2014 a Firenze. E poi Giuseppe Casu, morto nel 2006 all’ospedale Santissima Trinità di Cagliari dopo essere rimasto per sette giorni legato al letto. E Franco Mastrogiovanni, maestro elementare, deceduto a Vallo della Lucania nel 2009, dopo quattro giorni di contenzione ininterrotta che la regista Costanza Quatriglio ha raccontato nell’agghiacciantefilm”87 Ore“.
Un caso molto noto è anche quello di Giuseppe Uva, operaio 43enne di Varese, che una sera dell’estate 2008 viene fermato dai carabinieri. È ubriaco e con un amico sta cercando di spostare delle transenne in mezzo alla strada. Vengono entrambi prelevati e portati in caserma, ma solo uno dei due ritornerà a casa. Per Uva, infatti, viene predisposto un TSO con conseguente trasferimento in ospedale. La mattina dopo viene trovato morto nel reparto di psichiatria. La diagnosi – come spesso in questi casi – è di arresto cardiaco, che non spiega però come mai il suo corpo sia coperto di lividi, soprattutto viso, mano, fianco e testicoli. La legge 180 (o legge Basaglia, di cui quest’anno celebriamo il quarantennale) è famosa per aver chiuso quei luoghi di sofferenza ed esclusione che erano i manicomi. Ma non era questo l’unico obiettivo. Il 13 maggio 1978, la 180 ha finalmente esteso il principio di volontarietà del trattamento anche ai pazienti psichiatrici. Non una cosa da poco, se si pensa quanto era facile una volta sbarazzarsi di qualcuno facendolo passare per matto grazie al parere di uno o due medici compiacenti.
È questo il principio che sta alla base della rivoluzione di Basaglia: il malato, anche psichiatrico, non coincide con la sua malattia. È un individuo con diritti e capacità di autodeterminazione, che non possono essere cancellati da un momento di crollo come può essere una crisi psicotica. Sia Franco Basaglia che il ministro della sanità, Luigi Mariotti, erano consapevoli dei limiti di un provvedimento scritto in fretta e ottenuto al prezzo di mille compromessi. Nelle loro intenzioni, la 180 doveva essere una legge temporanea, ne raccomandavano, anzi, la revisione e il perfezionamento alla prima occasione possibile. Che a quanto pare non è mai arrivata.
Ulteriore equivoco: pensare che il TSO sia una misura per arginare la pericolosità sociale di un soggetto e non, come dice la legge, un dispositivo di tutela per il paziente
Ed eccoci di nuovo al TSO, l’aspetto forse più controverso della legge e quello che forse, più di tutti, meriterebbe qualche aggiustamento. Ufficialmente il TSO è disposto con un’ordinanza del sindaco del comune interessato su proposta motivata di un medico e convalidata da un altro. Entro 48 ore dal ricovero, il provvedimento deve essere trasmesso al giudice tutelare, che a sua volta ha 48 ore per decidere se convalidare o meno il trattamento, la cui durata massima è di sette giorni, rinnovabili.
Si tratta di un provvedimento delicato, che sospende la libertà della persona. È normale quindi che la procedura che lo regola sia complessae che coinvolga diversi soggetti. Va da sé però che molte delle cautele previste – come la convalida del giudice – intervengano in un secondo momento e non forniscono garanzie per la fase in cui il paziente viene prelevato con la forza. Esistono inoltre molte zone grigie nel procedimento: non è chiaro per esempio chi debba far eseguire materialmente l’ordinanza del sindaco: se la polizia, i carabinieri o i vigili. E nemmeno quale sia il ruolo specifico delle forze dell’ordine: se sono chiamate solo per garantire la sicurezza del personale medico o per gestire direttamente il dialogo con il paziente (in tal caso servirebbe una formazione specifica).
Queste ambiguità procedurali rendono ogni TSO diverso dall’altro, a seconda della preparazione del personale, del comportamento del paziente, o anche solo di quale tra gli enti coinvolti arriva per primo sul posto. Gli equivoci principali sembrano essere due: il primo è considerare il TSO, anziché un provvedimento estremo ed eccezionale, un ordinario strumento di controllo, da esercitarsi nel modo più sbrigativo possibile. Così, anziché lavorare di mediazione, negoziare la cura e far di tutto per tranquillizzare il paziente, si preferisce farlo “catturare” dalle forze di polizia, portarlo all’ospedale, magari legato o ammanettato, per poi sedarlo con neurolettici e benzodiazepine.
Ma il TSO non è un mandato di cattura, non è un fermo di polizia e non è nemmeno il ricovero coatto dell’epoca manicomiale. Ed eccoci al secondo equivoco: pensare che il TSO sia una misura per arginare la pericolosità sociale di un soggetto e non, come dice la legge, un dispositivo di tutela per il paziente.
A 40 anni da una legge rivoluzionaria e democratica come la Legge Basaglia, la salute mentale, che in Italia è ancora un tabù, continua a essere gestita in chiave emergenziale
A causa di questo fraintendimento, troppo spesso il personale che ha il sopravvento nell’azione non è quello medico ma quello poliziesco o militare. Pensate al caso di Riccardo Magherini: quando i carabinieri l’hanno fermato in preda a un attacco di paranoia, sul posto erano intervenute anche due ambulanze, che però non hanno avuto altro ruolo che quello di trasportarne il cadavere: probabilmente non volevo intralciare l’azione dei carabinieri. Un altro aspetto ricorrente è quello di uno spiegamento di forze del tutto sproporzionatoper la situazione. È accaduto nel caso Mastrogiovanni, un uomo pacifico e disponibile al ricovero volontario per il quale è intervenuta addirittura la capitaneria di porto, ed è accaduto in un caso recentissimo, di cui si è parlato troppo poco: Jefferson Tomalà, 21 anni, ucciso questo 10 giugno a Sestri Ponente.
È una domenica pomeriggio e la madre di Tomalà, Lourdes Garcia, è preoccupata per suo figlio: è agitato, confuso, forse in preda a una crisi psicotica. Giàla sera prima aveva dato segni di agitazione, tanto che la sua compagna aveva preferito uscire di casa portando con séla loro bimba di due mesi. Lourdes Garciadecide di fare ciò chefaremmo tutti: chiedere aiuto e chiamare il 118. Anche perché Jefferson, nel frattempo, ha preso in mano un coltello da cucina e lei ha paura che possa ferirsi. Sul posto, anziché la guardia medica, intervengono ben 8 poliziotti. Jefferson è seduto sul suo letto quando la sua piccola camera, già piena di agenti, viene invasa dai gas lacrimogeni, che non fanno che gettarlo ancora di più nel panico. Un agente che gli si butta addosso per disarmarlo e il ragazzo lo ferisce gravemente. A questo punto l’agente più giovane, preoccupato per il collega, spara 6 colpi, dritti nel torace del ragazzo.
A 40 anni da una legge rivoluzionaria e democratica come la Legge Basaglia, la salute mentale, che in Italia è ancora un tabù, continua a essere gestita in chiave emergenziale. Era stata proprio la 180 a sovvertire il paradigma psichiatrico eliminando la parola “pericolosità”, che fino a quel momento era implicita nello stesso concetto di malattia mentale (“pericoloso per sé e per gli altri o di pubblico scandalo”: era questo il criterio per l’internamento in manicomio della legge 36 del 1904). “Ciò non significa che, per legge, il disturbo psichico non determini, mai più, condotte pericolose”, spiega Piero Cipriano, scrittore e psichiatra: “ma il pericolo non è la regola, anzi. La conseguenza di questo spostamento di paradigma è che l’obbligo alle cure, quando necessario, non accade più per tutelare la società dal pericolo del folle, ma viceversa per un dovere etico di cura, perché i disturbi psichici non rappresentano più una questione di pubblica sicurezza, ma una questione terapeutica”.