Il braccio alzato — quello destro, sic — e il pugno chiuso. Gli occhi alteri, superbi. La bocca chiusa in una smorfia che lascia intendere un fremito di orgoglio. Lo sguardo gettato al chilometro, manco più al sol dell’avvenire. Così il ministro delle infrastrutture Toninielli ha festeggiato l’approvazione del discusso decreto per Genova nell’aula del Senato della Repubblica. E, naturalmente, ha scatenato un mare di polemiche sia a destra che a sinistra.
Da una parte quelli che si sono indignati per l’ostentazione di un gesto la cui origine politica è ben radicata nella sinistra comunista, anche se c’è da dire che per citare l’originale avrebbe dovuto essere coinvolto il braccio sinistro, ma va beh. Dall’altra quelli che si sono indignati per l’esatto contrario, ovvero per l’appropriazione indebita di un simbolo importante per tutta la sinistra da parte di un grillino che negli ultimi mesi ha sostenuto molti provvedimenti salviniani e che di comunista, probabilmente, non ha nemmeno una maglietta del Che nell’armadio della cameretta di casa dei suoi.
Curiosamente, la lesa maestà e l’appropriazione indebita arrivano a qualche giorno da un’altra dichiarazione che aveva fatto saltare in aria contemporaneamente tutta la sinistra italiana: Lele Mora che non solo dichiara di voler comprare l’Unità, il quotidiano per antonomasia della sinistra comunista italiana, fondato nel 1924 da Antonio Gramsci e ormai alla deriva da oltre un anno dopo una serie di rocambolesche disavventure editoriali, ma aggiunge anche che il obiettivo sarebbe niente meno che “Far rivoltare Gramsci nella tomba”, come aveva riportato Repubblica.
È tutta una perdita di tempo, per non dire di peggio. Il pugno chiuso, l’Unità sotto l’ascella, sono tutti simboli di una sinistra che è stata e che non c’è più
Anche qui, come per il gesto del compagno ministro Toninelli, nemmeno il tempo di verificare la notizia — in realtà smentita, per ora, dai proprietari della testata — e giù tutta la sinistra parlamentare e extraparlamentare, la sinistra politica e social (non è un refuso, la “e” ce la siamo tirata sui denti a furia di indignazione su Facebook e Twitter, ormai), che a social network unificati si è indignata ancora una volta, gridando all’attentato alla memoria.
Ma è tutta una perdita di tempo, per non dire di peggio. Il pugno chiuso, l’Unità sotto l’ascella, sono tutti simboli di una sinistra che è stata e che non c’è più. E lottare per salvaguardare la memoria di due simboli, di due semplici rappresentazioni, di fronte al grottesco stallo messicano politico in cui ci troviamo, uno stallo in cui contemporaneamente i vecchi federalisti sono i nuovi fascisti, i neo qualunquisti fanno i comunisti con il culo degli altri, e i vecchi comunisti hanno superato a destra il liberismo dei qualunquisti è semplicemente assurdo. E pericoloso.
Quando il dito indica la Luna lo stolto guarda il dito, dice il saggio proverbio cinese più abusato della storia dei saggi proverbi cinesi. Ecco, qui il problema è che la Luna non sappiamo più nemmeno che esiste e non stiamo più guardando il dito e nemmeno la sua ridicola unghia sporca. E la cosa grave, gravissima, è che la sensazione è che l’indignazione si fermi ai simboli — al dito, o all’unghia del dito — perché non è più in grado di contestare la sostanza — la luna — che nel frattempo ci sta precipitando sulla testa peggio del cielo di Assuracentourix.
Qui il problema è che la luna non sappiamo più nemmeno che esiste e non stiamo più guardando il dito e nemmeno la sua ridicola unghia sporca
Quindi che l’Unità se la prenda pure Lele Mora, e che ne faccia pure l’uso della carta bianca dei due colonnelli di Totò, tanto Gramsci ormai a furia di rivoltarsi nella tomba avrà creato un campo gravitazionale da buco nero. E che Toninelli esulti come vuole in Parlamento, tanto per lui parlano altri gesti, ovvero le dichiarazioni, i decreti, le proposte di legge che, se sopravviveremo a questa imbarazzante mazurka politica, verranno derisi tra qualche anno, da chi se lo potrà permettere.
E noi, nel frattempo? Noi nel frattempo smettiamo di guardarci indietro, perché come recita una di quelle frasi che ornano i cessi delle birrerie: è inutile che ti guardi indietro, non è di là che stai andando. Anche perché, a anni a venire da oggi, quando i nostri nipoti ci chiederanno che cosa facevamo mentre questa banda di inetti stava distruggendo il Paese, non basterà certo dire loro che ci indignavamo per un pugno chiuso in parlamento o per un la minaccia di un impresario di comprare il quotidiano del trisavolo.