Ci aveva già pensato Viktor Orban, in Ungheria, con la sua legge già definita “schiavista”, a palesare ciò che sosteniamo da tempo ovvero che sovranismo e anti-immigrazione finiscono sempre, preso o tardi, col colpire la gente comune e i lavoratori perché ci sarà sempre un ultimo e un penultimo da mettere in competizione. Anche in Italia, ogni giorno che passa, emerge sempre più chiaro il lato ostile a imprese, lavoro e sviluppo che il Governo sta mostrando, sacrificando il futuro sull’altare del consenso immediato e di una campagna elettorale permanente, col risultato finale di scontentare tutti e di mettere le ganasce al Paese.
Ogni tipo di intervento politico e legislativo, per essere utile ed efficace, deve sempre tener presente il contesto attuale e avere una visione prospettica di più lungo periodo. Il decreto dignità, pur muovendosi con il nobile intento di contrastare la precarietà, ha finito, come previsto da attenti osservatori, col favorire i mancati rinnovi dei contratti in scadenza e la sostituzione tra lavoratori. Nel biennio precedente l’introduzione del decreto dignità, tra i contratti a tempo determinato sono aumentati quelli di durata inferiore all’anno, mentre sono diminuiti quelli di durata superiore all’anno che, invece, sono proprio quelli su cui si concentra il decreto dignità con l’idea, sbagliata e non corrispondente alla vita aziendale, che il loro contrasto si traduca in un maggior ricorso al contratto a tempo indeterminato, reggendosi sulla fuorviante equazione precariato uguale contratto a termine.
La precarietà, invece, si contrasta costruendo un serio sistema di politiche attive, non necessariamente pubblico, che si faccia carico di riqualificare e ricollocare chi perde il lavoro, incrociando domanda e offerta, investendo sulla formazione dei lavoratori, quella che potremmo chiamare formazione di cittadinanza, e rimettendo in tiro tutto il sistema scolastico con le traiettorie di sviluppo delle imprese. Il modello su cui si è retta la nostra società negli ultimi settant’anni che prevedeva il posto fisso per tutta la vita non è più una possibilità realistica né, soprattutto, l’aspettativa dei giovani e neppure ciò che servirà alle alte professionalità, che diventeranno protagoniste nell’Industria 4.0, una sorta di colletti azzurri, nuove figure di lavoratori, un incrocio tra operai e impiegati, subordinati e autonomi, che faranno delle proprie competenze il valore aggiunto ricercando sempre nuove possibilità e nuove esperienze per accrescere professionalità e salario. È qui che occorre inserirsi per non lasciare indietro nessuno, costruire le giuste tutele e favorire percorsi di crescita per tutti.
Oggi una assunzione su tre è subordinata alla capacità delle imprese di gestire le tecnologie 4.0 cogliendone le opportunità. Stiamo parlando di migliaia di nuovi posti di lavoro all’anno, una cifra impressionante che, per essere mantenuta e incrementata, necessita di lungimiranza e di cura delle competenze necessarie. È questo il terreno su cui il Governo ha consumato il cortocircuito più pericoloso, con una manovra economica costruita con modalità tanto assurde quanto irrispettose del ruolo del Parlamento, fatta di bozze passate dalla Camera e poi sostituite da un maxiemendamento blindato dal voto di fiducia al Senato senza passare dalle Commissioni. Alla faccia della trasparenza. L’Esecutivo ha tenuto in scacco il Paese per mesi, facendo impazzire lo spread, mandando deserte le aste dei btp, mettendo in fuga gli investitori e creando quell’incertezza che paralizza il lavoro e che aggrava il già pericolante debito nostrano scaricandone i costi sulle persone e sulle future generazioni.
Una manovra recessiva, che soffoca lo sviluppo e il lavoro e aggrava le fasce più deboli, contro la quale Cgil Cisl e Uil manifesteranno, giustamente, a gennaio. Una manovra fatta di spesa improduttiva e di tagli agli investimenti che sono, invece, proprio quelli che servono al nostro Paese per non perdere il treno del futuro e per affrontare il tema della produttività
Se si toglie l’olio degli investimenti, il motore grippa. La scelta di tagliare proprio gli investimenti sul ferroviario, di abrogare i fondi residui del credito di imposta per l’acquisto di beni strumentali nuovi (la vecchia norma “Guidi-Padoan) e di ridurre il fondo per favorire lo sviluppo per capitale immateriale, per la produttività e per la competitività, sono tutte misure che vanno invece proprio in questa direzione, miope e scellerata. Tagliare il fondo creato per finanziare progetti di ricerca e di trasferimento tecnologico soprattutto nei capitoli di Industria 4.0 è un brutto segnale che fa il paio con l’incertezza creata attorno ai tagli anche sul credito di imposta per la formazione incrementale, legata proprio allo sviluppo tecnologico e alla digitalizzazione, di cui non si conosce ancora la sorte, e con la tassazione sulle auto che metterebbe in crisi il settore, la tenuta occupazionale e gli investimenti delle imprese senza favorire, certamente, la transizione verso le automobili elettriche che necessita, invece, di accompagnamenti e non di strappi. Un intervento regressivo che impatterebbe negativamente sulla spinta al pil che l’automotive ha dato negli ultimi anni, colpendo anche il settore dell’indotto della componentistica e delle minuterie meccaniche molto presenti in Lombardia.
In una Paese in cui, purtroppo, si continua a morire sul lavoro, preoccupa anche la riduzione dei premi assicurativi all’Inail da parte delle imprese, mascherata da taglio del cuneo fiscale, soprattutto perché manca l’impegno sulla qualificazione delle prestazioni a favore delle lavoratrici e dei lavoratori.
La pennellata finale su questo dipinto sbiadito è rappresentata dalla decisione di rivalutare, rispetto al costo della vita, le sole pensioni fino a 1.522 euro lordi al mese, soglia oltre la quale verrà prevista la riduzione dell’indicizzazione. Mentre si parla di pensioni di cittadinanza, si fa cassa su assegni previdenziali ben lontani dall’essere definiti pensioni d’oro.
Una manovra recessiva, che soffoca lo sviluppo e il lavoro e aggrava le fasce più deboli, contro la quale Cgil Cisl e Uil manifesteranno, giustamente, a gennaio. Una manovra fatta di spesa improduttiva e di tagli agli investimenti che sono, invece, proprio quelli che servono al nostro Paese per non perdere il treno del futuro e per affrontare il tema della produttività: se è vero che i dati sull’occupazione, dal punto di vista quantitativo, sono tornati a i livelli pre-crisi ma che il pil, rispetto a quello stesso periodo, ha ancora un ritardo di 5 punti, significa, appunto, che la produttività del paese è, da troppi anni, fortemente negativa. Costi dell’energia, dei trasporti e delle aree edificabili e le troppe tasse sono solo alcuni esempi di fattori che strozzano la produttività, riducendo i ritorni degli investimenti in capitale fisico, finanziario, intangibile e umano. Ecco perché se non costruiremo interventi in grado di sciogliere questo nodo non potremo liberare risorse per gli investimenti privati, che devono essere stimolati dallo Stato, non riusciremo a favorire la competitività e faticheremo ad aumentare salari e posti di lavoro. Diventa quindi, anche, fondamentale rilanciare la contrattazione su questi temi, promuovere la partecipazione organizzativa dei lavoratori e realizzare quanto prima la contrattazione territoriale per consentire a tutte le imprese di agganciare la digitalizzazione e l’innovazione.
Industria 4.0 non è una possibilità ma è la via che dovranno necessariamente percorrere tutte le imprese per restare competitive nel mercato globale. Sbagliare strada vuol dire relegare il manifatturiero italiano ai margini e condannarlo a competere su bassi salari e con produzioni a scarso valore aggiunto. Un rischio che non possiamo correre se vogliamo immaginare, ancora, un futuro di opportunità.
*Segretario Generale Fim Cisl Lombardia