Si alza il sipario sulla prima della Scala di Milano con l’Attila di Giuseppe Verdi. Mentre il resto della lirica italiana, fuori dal palco, vive la sua tragedia collettiva. Con un buco di bilancio complessivo di 400 milioni di euro su 14 fondazioni lirico-sinfoniche, all’orizzonte del nuovo anno ora si presenta pure la mannaia della legge 160 del 2016. Che, in soldoni, dice una cosa: le fondazioni che non hanno raggiunto il pareggio di bilancio entro il 2018 saranno “declassate” a semplici teatri lirici, alimentati solo con i contributi di comuni e regioni e una piccola quota del Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Tenendo conto che oggi hanno i conti in ordine solo La Scala di Milano, l’Accademia di Santa Cecilia di Roma (entrambi a “statuto speciale”) e la Fenice di Venezia, le altre undici fondazioni sono tutte a rischio downgrade.
Nel ristretto pantheon delle fondazioni virtuose fino a qualche mese fa c’era pure il Regio di Torino. Poi a ottobre è venuto fuori un buco da 5 milioni di euro, tra un taglio da 2 milioni ai fondi del Fus e i ritardi nelle erogazioni di Regione e Comune, che hanno portato il teatro di piazza Castello a sottoscrivere prestiti su prestiti pagando fino a 700mila euro l’anno di interessi. Destituito il vecchio sovrintendente, il teatro è in fase di approvazione del nuovo piano industriale. Ma è un rosso difficile da assorbire in pochi mesi, e che potrebbe portare quindi al declassamento uno dei pochi teatri in grado di camminare sulle proprie gambe (finanziarie). Con il paradosso che il dowgrade potrebbe arrivare proprio da un ministro della Cultura di area Cinque stelle, Alberto Bonisoli, in teoria amico della sindaca Chiara Appendino, che della fondazione (come gli altri sindaci) è anche presidente.
Davanti alle rimostranze di ballerini ormai avanti con l’età, c’è stato anche qualche assessore che ha commentato: «La Fracci balla ancora a 70 anni e voi volete annà in pensione a 45?»
Fatta eccezione per La Scala e Santa Cecilia, considerate “eccellenze”, il Regio di Torino e La Fenice di Venezia erano gli unici due enti che si erano salvati dalla legge Bray del 2013, una sorta di troika applicata all’opera. Le fondazioni in crisi hanno potuto accedere ai finanziamenti, ma a certe condizioni: assunzioni bloccate, ridimensionamento del personale amministrativo e artistico e stipendi al minimo sindacale. Da allora, l’età media degli artisti è salita, e insieme alla fuga dei cervelli si è assistito anche alla “fuga delle corde vocali”, con i giovani cantanti che sono andati a lavorare fuori dai confini nazionali. Ma davanti alle rimostranze di ballerini ormai avanti con l’età, c’è stato anche qualche assessore che ha commentato: «La Fracci balla ancora a 70 anni e voi volete annà in pensione a 45?».
Qualche teatro, comunque, come il comunale di Bologna, a furia di tagli e sforbiciate è riuscito a mettersi più o meno in pari. Ma con il calo continuo del Fus, arrivato nel 2018 a 178,85 milioni di euro, la metà rispetto al 1985 (quando venne istituito), si tratta di equilibri più che precari.
Quindi, ad oggi, dalla legge 160 solo Venezia si salverebbe. Mentre la spada di Damocle del declassamento a teatri lirici è dietro l’angolo per tutti. Con musicisti, coristi, ballerini, sarti e scenografi pronti a ricorrere alla Consulta. Anche perché la legge prevede che le fondazioni che non raggiungono il pareggio di bilancio devono ridurre la programmazione e soprattutto trasformare tutti i contratti in contratti part time.
L’opera italiana, nota in tutto il mondo, avrà la sua serie A, B, e pure la C. E viaggerà, a guardare i conti attuali, su tre classi: le eccellenze di Milano e Santa Cecilia, una fondazione a Venezia, e ben undici teatri lirici con poche alzate di sipario, scarsi contributi pubblici e chiusure stagionali obbligate
In questi giorni il governo sta lavorando ai decreti attuativi della legge 160, che dovrebbero essere pronti entro fine anno. È possibile che ci sia una proroga, ma non una abrogazione della norma, come i lavoratori avevano chiesto ai gialloverdi. L’opera italiana, nota in tutto il mondo, avrà quindi la sua serie A, B, e pure la C. E viaggerà, a guardare i conti attuali, su tre classi: le eccellenze di Milano e Santa Cecilia, una fondazione lirico-sinfonica a Venezia, e ben undici teatri lirici con poche alzate di sipario, scarsi contributi pubblici e chiusure stagionali obbligate.
E in serie C se la giocheranno palcoscenici che sarebbero in teoria la punta di diamante della produzione italiana, e che invece da anni vivono nel caos. Vittime di quella legge Veltroni che ha trasformato le fondazioni di diritto pubblico in enti privati, che sono in realtà parapubblici, perché sottoposti ancora a vincoli pubblici. Figure mitologiche divise tra fondi statali e locali, soci e sponsor privati. Con un grosso condizionamento della politica, per non farsi mancare nulla: i sindaci presiedono il cda delle fondazioni (a eccezione di Santa Cecilia), con relativo spoil system, e i sovrintendenti sono nominati dal ministero per i Beni culturali. Il pastrocchio è fatto.
A far funzionare questo mix di pubblico e privato c’è riuscita bene La Scala di Milano, che conta 35 milioni di euro di ricavi di biglietteria, sponsor privati come Intesa e Luxottica, oltre ad avere tra i soci fondatori anche Eni e Fondazione Cariplo. E ci riesce anche l’Accademia di Santa Cecilia, che ha tra i soci fondatori anche Enel, Bnl e Cdp. Pure La Fenice di Venezia vanta un lungo elenco di soci sostenitori privati, dalla stessa Confindustria locale a Pierre Cardin, fino alla casa editrice Marsilio.
Ma nella periferia dell’impero vige il caos, anche laddove i privati hanno messo radici. E ad ogni alzata di sipario, i conti vanno sempre più in negativo. L’opera lirica costa molto, si sa, e da soli i biglietti non ce la fanno a reggere la baracca. Così in questi anni si sono tentate diverse strade. Non solo il taglio dei dipendenti stabili e la riduzione volontaria degli stipendi, com’è accaduto all’Opera di Roma nel 2014 davanti al rischio di decine di licenziamenti. Ma anche la proliferazione delle partite Iva e dei part time, che portano al fenomeno bislacco delle “prove senza” uno o due componenti del coro o delle orchestre, e quindi tutte da rifare.
E per staccare più biglietti, in alcuni casi si sono moltiplicate le recite: a Roma da due o tre serate a settimana si è passati anche a venti al mese. Con poca fantasia sui titoli, ridotti ormai solo ai più “famosi”. Senza contare però che ogni “alzata di sipario”, a conti fatti, costa sui 200mila euro. E con le esternalizzazioni dovute al taglio delle piante organiche, la spesa è pure salita. Tanto che c’è qualcuno che dice: «Per salvare i teatri in teoria non dovresti fare più spettacoli».
Al San Carlo di Napoli, si fanno i matrimoni nel foyer. Il Regio di Torino ha organizzato il “Fitness all’Opera”. A Firenze, nel nuovo auditorium del teatro del Maggio Fiorentino, girano le puntate del programma “Italia’s Got Talent”
A passarsela male è soprattutto l’Arena di Verona, che pure – dicono tutti – «dovrebbe essere quella più in attivo di tutte», visto che solo con gli spettacoli estivi stacca centinaia di migliaia di biglietti. E invece è quella messa peggio. La fondazione è stata commissariata per un anno. Per far quadrare i conti, il corpo di ballo è stato chiuso, e due mesi all’anno i lavoratori sono a casa senza stipendio. Il tutto nonostante nel frattempo si facciano spettacoli-evento sold out come quello di Roberto Bolle and Friends. E la fondazione abbia appena nominato un vicedirettore artistico, unico esempio in Italia, con un compenso di 75mila euro l’anno.
C‘è chi si è dato pure alla “finanza creativa” per far cassa. A Verona si tengono concerti di ogni tipo, e persino Calcutta dai palazzetti si sposterà poi nella cornice dell’Arena. Al San Carlo di Napoli, si fanno i matrimoni nel foyer. Il Regio di Torino ha organizzato il “Fitness all’Opera”. A Firenze, nel nuovo auditorium del teatro del Maggio Fiorentino, girano le puntate del programma “Italia’s Got Talent”. «I mercanti sono entrati nel tempio», commenta qualche musicista.
Ma non basta a coprire i buchi milionari, visto che in base a quanto ha rivelato Cristiano Chiarot, presidente dell’Associazione Nazionale Fondazioni lirico-sinfoniche (Anfols), nel corso di un’audizione il 7 novembre 2018 in commissione Cultura del Senato, «l’insieme del debito supera i 400 milioni di euro, e non potrà essere estinto a breve». Proponendo di azzerare tutto.
Si ricordano negli annali spese di affitto di tappeti rossi e pianoforti a prezzi stellari, restyling continui delle portinerie, scenografie fatte fare all’esterno (anche con le stampanti 3D) che poi non sono riuscite a entrare sul palco, e persino qualche ingresso personalizzato a uso esclusivo dei sovrintendenti
Ma c’è anche uno storico problema di governance (come abbiamo già scritto più volte). Perché se su alcuni punti si è risparmiato, c’è ancora una gestione poco chiara dei soldi delle fondazioni, che non hanno alcun obbligo di rendicontare le spese. E così si ricordano negli annali spese di affitto di tappeti rossi e pianoforti a prezzi stellari, restyling continui delle portinerie, scenografie fatte fare all’esterno (anche con le stampanti 3D) che poi non sono riuscite a entrare sul palco, e persino qualche ingresso personalizzato a uso esclusivo dei sovrintendenti. Che continuano ad avere lauti compensi (qui la relazione della Corte dei conti).
E a incombere sui debiti ora c’è anche il problema del rinnovo dei contratti a termine dei precari mai stabilizzati in questi anni. Tra la stretta del decreto dignità e la Corte di giustizia europea, che a fine ottobre si è espressa dichiarando illegittimo il ricorso continuo dei contratti a tempo determinato anche nelle fondazioni, il settore sta vivendo una sorta di paralisi per paure di future vertenze, che potrebbero ricadere sul bilancio dei teatri. E la tensione sale tra cantanti e musicisti che rischiano di restare a casa. In occasione della prima del Rigoletto all’Opera di Roma, tre artisti del Comitato nazionale della Fondazioni lirico sinfoniche sono stati bloccati dalla polizia mentre facevano volantinaggio tra il pubblico. I lavoratori di Verona, dopo aver sfiduciato la dirigenza dell’Arena, dal 7 al 9 dicembre hanno dichiarato tre giorni di sciopero. E anche nel giorno della prima della Scala, come sempre, si aspettano proteste e manifestazioni. Anche la capitale dell’impero, Milano, non resterà immune al caos.