L’inchiestaBancarotta democratica: così il Pd si è distrutto da solo, e ora si ritrova senza soldi

Dopo anni di spese folli, oggi il Partito è schiacciato da debiti e dalla scelta politica suicida di abolire il finanziamento pubblico. Non si riescono a pagare gli affitti delle sedi e nemmeno gli stipendi, e da agosto bisognerà tagliare due terzi del personale. È davvero la fine per il PD?

La Presse

Ai 171 dipendenti (tutti in cassa integrazione) del Partito democratico quest’anno non sono arrivate neanche le tredicesime. Ed entro agosto 2019 almeno la metà di loro dovrà essere licenziata. Nelle casse del Pd è rimasto poco o nulla. E a premere c’è un debito di oltre 8 milioni di euro. Dopo i fasti delle convention milionarie dei tempi di Veltroni e Bersani e la fine del finanziamento pubblico ai partiti voluto dallo stesso Matteo Renzi (e attuato da Enrico Letta) per tenere il passo ai populisti, il partito non è solo a corto di iscritti, ma anche – e soprattutto – di liquidità. I segretari provinciali e regionali fanno praticamente volontariato, raccontano. Non a caso negli ultimi anni sono stati eletti soprattutto deputati e senatori. E i circoli sparsi nelle città e nelle province, avamposto della presenza sul territorio, si stanno decimando. E quelli che sopravvivono, per restare aperti si danno alla “finanza creativa”. La sezione di Tor Pignattara, a Roma, ogni domenica affitta la sede a una chiesa evangelica filippina. Quella di Ottavia-Palmarola, periferia Ovest della Capitale, per far quadrare i conti ha ceduto gli spazi anche alle dimostrazioni di una società che vende materassi.

Difficile star dietro agli affitti. Persino nei circoli storici del vecchio Pci. A Roma il partito ha un buco di 3 milioni di euro. Nella Rossa Bologna la vecchia festa dell’Unità negli ultimi due anni ha perso 400mila euro a edizione. E le poche tessere non bastano a coprire i costi, seppure quel poco che c’è resti sui territori. Ma con poco più di 51mila euro di quote associative annuali si fa poco o nulla. Tant’è che per il tesseramento 2018, concluso il 21 dicembre, il costo è stato dimezzato a 15 euro, per attirare quanti più iscritti in vista delle primarie. Perché con i pochi soldi rimasti in cassa è un’impresa organizzare ogni tipo di iniziativa politica per star dietro alla propaganda grillina e leghista.

I soldi in arrivo dal 2 per mille dell’Irpef, che pure sono cresciuti nel 2017 con un incasso di quasi 8 milioni di euro, non sono sufficienti a reggere la baracca. Colpa anche della legge sulla fine del finanziamento pubblico ai partiti, approvata dal governo Letta tra il 2013 e il 2014, tra le pressioni della guerra alla casta grillina da un lato e la scalata al potere di Matteo Renzi dall’altro. Non era bastato il dimezzamento dei fondi del governo Monti a placare l’onda dell’antipolitica, e quindi Letta approvò la riduzione progressiva fino all’azzeramento totale a partire dal 2017.

I soldi in arrivo dal 2 per mille dell’Irpef, che pure sono cresciuti nel 2017 con un incasso di quasi 8 milioni di euro, non sono sufficienti a reggere la baracca. Colpa anche della legge sulla fine del finanziamento pubblico ai partiti, approvata dal governo Letta

Oltre al tesseramento e al 2 per mille, gli introiti oggi sono garantiti dal contributo obbligatorio di 1.500 euro al mese che tutti i parlamentari devono versare nelle casse del partito. E dalle donazioni private, per le quali – per volere dei Cinque Stelle – è previsto l’obbligo di trasparenza solo sopra i 500 euro: nel 2017 si contano oltre 9 milioni di euro da persone fisiche, poco più di 185mila da società e cooperative. Archiviata invece la formula “cena di finanziamento”, come le due organizzate da Renzi a Roma e Milano nel 2014 con una quota di partecipazione da 1.000 euro. Che hanno creato più problemi che benefici. Soprattutto dopo che è venuto fuori che tra gli 840 presenti a Roma si era “seduto” al tavolo con Renzi pure il ras di Mafia Capitale Salvatore Buzzi.

Quella delle cene era stata una trovata di Renzi, che nel 2013 – nonostante gli ingenti contributi pubblici del passato – si trovò a ereditare, con il fido tesoriere Francesco Bonifazi, un debito enorme. Le gestioni Veltroni e Bersani non avevano badato a spese. Solo la famosa Youdem creata da Veltroni all’inizio costava 4 milioni all’anno. Nessuna spending review nemmeno con Bersani: la direttrice dell’emittente Chiara Geloni dichiarò senza problemi di guadagnare 6mila euro al mese; la prima assemblea dopo il congresso, svoltasi alla Fiera di Roma, costò circa un milione di euro; mentre i membri della segreteria (tutti non parlamentari) percepivano uno stipendio netto vicino ai 4mila euro, con vitto e alloggio pagato a Roma, e costi di trasferta illimitati. Erano gli anni in cui, nel frattempo, si decretava la fine dell’Unità, che con un organico sovradimensionato, stipendi altissimi per i dirigenti e un numero di lettori sempre più esiguo, non riuscì a sopravvivere, abbandonando le edicole.

Intanto le saracinesche di circoli e sezioni hanno cominciato a non alzarsi più. Fino ad arrivare al disastro elettorale del 4 marzo. Una mannaia anche per i dipendenti del partito, che arrivano tutti o quasi dalle precedenti esperienze nei Ds e nella Margherita. Un passaggio, per dirla tutta, gestito in maniera più vantaggiosa per la Margherita, che ha premuto perché i “suoi” fossero assunti con inquadramenti e stipendi alti. In mezzo, ovviamente, ci sono campagne elettorali costosissime, specie quella del 2013, costata oltre 10 milioni.

Le gestioni Veltroni e Bersani non avevano badato a spese. Per fare un esempio, solo la famosa Youdem creata da Veltroni all’inizio costava 4 milioni all’anno

Ma allora, nel 2013, i soldi per l’attività politica e la presenza sui territori circolavano eccome, al di là delle storture. Solo nel 2013 dai finanziamenti pubblici arrivarono oltre 18 milioni di euro, che costituivano circa il 65% delle entrate ordinarie. Soldi che oggi però non ci sono più. Bonifazi, con Renzi, ha cominciato a tagliare trasferte e spese extra, risanando così i conti del partito. Ma il finanziamento pubblico esisteva ancora, seppur ridotto, e soprattutto si poteva contare sui contributi di quasi 400 parlamentari che versavano regolarmente la propria quota (con qualche eccezione) nelle casse del partito. È in questi anni che i dipendenti cominciano a chiedere ai Renzi boys di mettere mano alla situazione del personale, una bomba destinata a esplodere. C’è chi propone di fare ricorso a forme di ammortizzatori sociali light come il contratto di solidarietà, chi chiede un incentivo all’esodo dignitoso (i conti ancora lo permettevano). Ma non si fa niente, si decide di aspettare. Con Renzi determinato a evitare un contraccolpo mediatico nel suo momento di massimo “splendore” dal punto di vista politico.

E così, continuando a vivacchiare, si arriva inesorabilmente al 2017, l’anno del tabula rasa di tutti i rimborsi elettorali. Uno shock aggravato dal fatto che le già povere casse del partito vengono dissanguate dalla campagna per il referendum costituzionale, costata circa 12 milioni. Solo il “guru” di Barack Obama Jim Messina presentò un conto di 400mila euro.

Tant’è che Bonifazi, a partire dall’agosto 2017, comincia a fare ricorso alla cassa integrazione straordinaria nei confronti dei dipendenti rimasti alla base (circa 125). Si salvano, solo momentaneamente, quelli distaccati nei vari ministeri (il Pd all’epoca era al governo) e nei due gruppi parlamentari di Camera e Senato. Nel frattempo il due per mille comincia a dare i suoi frutti, con il Pd che si accaparra mediamente il 50% delle donazioni volontarie destinate ai partiti politici. Ma le spese folli, in qualche modo, continuano, tra il giro d’Italia in treno di Renzi di fine 2017 e un restyling della terrazza del Nazareno che diventa un set per talk show televisivi.

Senza dimenticare l’operazione legata al ritorno in edicola de l’Unità. Nel 2015, l’80% dell’impresa viene affidato al gruppo Pessina, che opera nel campo delle costruzioni e della produzione di acqua minerale, mentre il 20% è controllato dal Pd tramite Eyu, società che prende il nome dalla neonata Fondazione renziana (quella che sostanzialmente prende il posto della dalemiana Italiani Europei nella Feps). L’operazione si rivela un fallimento. A metà del 2017 l’Unità, che accumula debiti e perde lettori ogni giorno, chiude per la terza volta nelle sua storia, lasciandosi dietro una scia di polemiche e vertenze sindacali che la imbrigliano ancora oggi.

Dal 3 marzo 2018 la patata bollente passerà nelle mani del nuovo segretario e, molto probabilmente, anche di un nuovo tesoriere, visto che Bonifazi nel frattempo è finito sotto indagine nella vicenda Parnasi

Si arriva così al 4 marzo 2018, con il disastro elettorale. Se la situazione era drammatica prima, ora diventa devastante. I parlamentari passano da quasi 400 a circa 160 e proporzionalmente anche il contributo versato da deputati e senatori nelle casse del partito viene più che dimezzato. I debiti con le società fornitrici di servizi si accumulano. I rubinetti verso i territori vengono definitivamente chiusi. I dipendenti vengono messi davanti a una situazione tragica: con quelle che sono le risorse ai disposizione, da oltre 170 (nel frattempo chi era al governo e nei gruppi è rientrato al partito) bisogna passare a meno della metà. Si riesce a ottenere un rinnovo di un anno ulteriore della cassa integrazione, questa volta per ristrutturazione aziendale, fino all’agosto 2019. Ma rispetto al primo anno, le condizioni sono molto più dure: la metà dei dipendenti stanno a casa, a zero ore, gli altri ruotano.

E si arriva così ai giorni nostri. La campagna del due per mille sembra che possa andare un po’ meglio del previsto, tanto da consentire una boccata d’ossigeno. Ma in attesa che queste risorse vengano accreditate, in totale mancanza di liquidità, il partito ha dovuto rinviare il pagamento delle tredicesime, nonostante, in situazione di cassa integrazione, fosse una spesa molto meno onerosa del normale.

Ora, dal 3 marzo 2018 la patata bollente passerà nelle mani del nuovo segretario e, molto probabilmente, anche di un nuovo tesoriere, visto che Bonifazi nel frattempo è finito sotto indagine nella vicenda Parnasi. I dipendenti hanno da poco diffuso un comunicato in cui fanno appello a tutti i candidati segretari affinché si prendano in carico la situazione. Ma Zingaretti, Martina o chicchessia, dovranno continuare a risparmiare per sopravvivere. Per renderne sostenibili i costi, la struttura deve essere tagliata di circa due terzi del personale. Forse, con uno sforzo organizzativo ed economico, si può arrivare a salvarne al massimo la metà. Ma significa che almeno 90 dovranno essere licenziati. E le prospettive per il futuro sono tutt’altro rosee. A meno che, ma con i Cinque Stelle al governo appare molto difficile, non si decida di rimettere mano al sistema di finanziamento ai partiti. Cosa che, dicono al Nazareno e non solo, farebbe molto comodo alla Lega, che deve 49 milioni di euro allo Stato, e pure a Forza Italia, dopo che Berlusconi ha chiuso i rubinetti.

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