Mentre il consumo assume ritmi sempre più veloci, le reali qualità dei materiali con cui gli oggetti e i beni che acquistiamo sono prodotti sembrano contare solo in termini di immagine. È chiaro che abbiamo un problema con le materie, anche perché di questo “trionfo del temporaneo” sono le conseguenze a essere permanenti. Secondo Thomas Rau e Sabine Oberhuber possiamo riuscire a tutelare i “diritti dei materiali”, come quello di non essere sprecati. “Material Matters” è il racconto di ciò che è già stato fatto e di quello che ancora rimane da fare per realizzare quel passaggio – dal lineare al circolare – che è l’unico capace di garantire la sostenibilità del nostro sistema economico.
Pubblichiamo un estratto dal secondo capitolo di Material Matters di Thomas Rau e Sabine Oberhuber (Edizioni Ambiente)
Il 13 marzo 1964 una giovane donna, Catherine “Kitty” Genovese, scende dalla sua automobile dalle parti del Queens, a New York, in un parcheggio circondato da appartamenti, tra cui il suo. Sono le tre e un quarto del mattino e sta tornando dal bar in cui lavora come cameriera. Mentre è ferma a un semaforo, Kitty viene notata da Winston Moseley, un macchinista ventinovenne. Moseley la segue e quando lei scende dall’auto la insegue e le dà due coltellate nella schiena. Kitty grida aiuto, ma in un primo momento solo un paio di persone sentono le sue grida. Un uomo gli urla di lasciarla stare e Moseley salta in macchina e se ne va. Ma poi, visto che nessuno scende per aiutarla, torna indietro e raggiunge Kitty che si sta trascinando verso casa. Le grida di alcuni vicini lo trattengono un istante, ma una volta tornato il silenzio aggredisce nuovamente Kitty. La ragazza muore sul pavimento dell’atrio del suo palazzo a causa delle ferite riportate. Solo verso le quattro meno dieci un vicino chiama la polizia. Moseley ha avuto trentacinque minuti, e al terzo tentativo ha assassinato la sua vittima. L’“effetto spettatore” Secondo il New York Times , trentotto persone che abitavano nel palazzo o in quelli vicini avevano assistito all’aggressione di Kitty Genovese, o almeno udito i rumori, ma nessuno aveva cercato davvero di aiutarla o di chiamare la polizia. L’articolo diede il via a una vasta ricerca psicologica per spiegare un dato così inquietante. Nel frattempo la storia di Kitty è diventata un esempio famoso di ciò che in psicologia sociale viene chiamato “effetto spettatore”, un fenomeno che si verifica quando un gruppo di spettatori è responsabile della soluzione di un problema. In casi come questo, si verifica quello che gli psicologi sociali chiamano diffusione della responsabilità, in cui la sensazione dei singoli individui di essere coinvolti nella soluzione di un problema è fortemente indebolita, di modo che nessuno si sente personalmente responsabile e non accade nulla.
Ciò mostra l’importanza del rapporto tra l’esperienza della responsabilità e il verificarsi di un’azione concreta: la seconda non può prescindere dalla prima. Se uno non si sente abbastanza responsabile perlopiù non interviene. Se riteniamo che la nostra influenza su una situazione sia minima, semplicemente non ci sentiamo tenuti a entrare in azione. Cosa accade quando la possibilità di intervenire e la responsabilità rispetto a una situazione si presentano separate l’una dall’altra? Ossia, l’individuo A agisce, ma passa la responsabilità delle conseguenze delle sue azioni all’individuo B. Questi “diventa” responsabile, ma, al contrario dell’individuo A, non esercita quasi nessuna influenza sulla situazione e perciò non sente affatto la responsabilità. Ciò può portare a uno stallo, in cui la situazione si protrae all’infinito. Suona strano? Eppure è esattamente così che a tutt’oggi ci comportiamo rispetto alle responsabilità e alle conseguenze nel modello economico attuale, conseguenze che danno origine a grossi problemi per tutti.
Ultima stazione
Prendete un produttore che sposta le sue responsabilità in avanti lungo la catena, aggiungete un consumatore che non esercita alcuna influenza sul processo di produzione e una catena di produzione in cui, alla fine, ci si disfa definitivamente del prodotto e delle materie prime che questo contiene. Risultato: una colossale montagna di rifiuti, con tutte le conseguenze che ne derivano per l’ambiente in cui viviamo. L’attuale catena produttiva è organizzata in modo che nessuno debba assumersi la responsabilità delle conseguenze delle sue azioni. La responsabilità viene trasferita lungo tutta la catena finché il prodotto non giunge all’ultima stazione: la montagna di rifiuti, dove il concetto di “responsabilità” ha ormai poco significato. Infatti, in quel momento il prodotto ha già perso la sua identità: è svanito in una grande massa anonima le cui modalità d’uso sono molto limitate. Le materie prime del prodotto, e i loro possibili impieghi, sono per la maggior parte perduti per sempre. L’ultimo anello prima del capolinea è sempre lo stesso: il consumatore, l’ultima persona che può decidere qualcosa di veramente sostanziale sul destino del prodotto. Ma in questo modo, il consumatore viene costretto ad assumersi la responsabilità di decisioni tecniche su cui non è competente, di innovazioni su cui non ha alcuna influenza e di sviluppi sociali di cui difficilmente è consapevole. Si tratti di una lavatrice, di uno smartphone o di un vestito, la storia è sempre la stessa: come consumatori e proprietari ci troviamo a dover gestire tutti i problemi creati consapevolmente dai produttori.
Quando compriamo una lampadina non sappiamo che si romperà dopo mille ore di funzionamento. Ignoriamo la quantità di materie prime utilizzate e sprecate per produrla, ignoriamo l’efficienza energetica dei processi di fabbricazione e i loro impatti sociali, e non sappiamo praticamente nulla su cosa c’è esattamente dentro quella lampadina che, dopo averla usata, getteremo nell’immondizia. Ai consumatori viene quindi chiesto fin troppo: non possono in nessun modo sobbarcarsi la responsabilità di risolvere tali problemi, con il risultato che le conseguenze delle decisioni dei produttori vengono sempre collettivizzate sotto forma di rifiuti. In tal modo le decisioni dei produttori e la responsabilità delle loro conseguenze vengono situate alla maggior distanza possibile l’una dall’altra, grazie a un modello economico chiamato “economia lineare”. In questo sistema, potere e responsabilità vengono intenzionalmente tenuti separati: per quanto il legislatore tenti di riavvicinarli i produttori escogitano sempre nuovi modi per aggirare lo spirito della legge.
La macchina dell’oblio
Secondo il sociologo Willem Schinkel, “la macchina dell’oblio” è un meccanismo che crea una specie di “paraocchi” in cui gli anelli di una catena non riescono più a vedere l’estensione e la coerenza di un insieme di grandi dimensioni: nel momento in cui si mette in azione, il consumatore non ha più la minima conoscenza della catena che portato all’esistenza del prodotto che sta usando. Inoltre, per usare le parole di Rob Wijnberg, il prodotto “è rivestito di un gergo ambiguo, avvolto nelle nebbie delle Pr e del marketing, e scomparso in impenetrabili meandri giuridici. In tal modo viene trasformato in qualcosa che ci è completamente estraneo”. Dato che la possibilità di agire e la responsabilità per le azioni sono così distanti l’una dall’altra, nessuno si sente più chiamato a intervenire. E l’enorme scala del problema rafforza ulteriormente questo processo con l’“effetto spettatore” descritto in precedenza. Si tratta di una regola fondamentale: al potere si accompagna la responsabilità. Separate le due cose e tutto andrà inevitabilmente a rotoli. Lo si vede ovunque, basti pensare alle enormi speculazioni finanziarie che hanno causato la crisi economica del 2008, che si è verificata (anche) perché le responsabilità per l’impiego di prodotti finanziari estremamente sofisticati erano state diluite così tanto che nessuno era più direttamente responsabile.
Qualunque sia la forma di obsolescenza programmata tra quelle descritte nelle pagine precedenti, il risultato è sempre lo stesso: l’acquirente deve accettare, suo malgrado, la responsabilità di un prodotto creato appositamente per durare poco. E i produttori fanno così per tentare di superare la limitatezza del loro modello dei ricavi.
Prendi, fai, getta
All’epoca del cartello Phoebus, il problema del produttore sembrava risolto, ma solo perché a quel tempo la Terra e le sue materie prime apparivano infinite e inesauribili. Si sapeva poco sull’influenza dell’umanità sull’ambiente e sui limiti dello spazio in cui viviamo. Inoltre, era ancora l’epoca del colonialismo: quando un luogo veniva spogliato delle sue risorse naturali, se ne poteva sempre cercare un altro. Era l’epoca in cui il motto imperante era “the sky is the limit!”. I limiti del sistema non erano ancora visibili, e questo provocava una (illusoria) sensazione di onnipotenza.
Nel frattempo abbiamo scoperto che i limiti esistono, e che l’ambiente in cui viviamo è concretamente limitato e contiene una quantità finita di materie prime. Inoltre, è ormai certo che le nostre azioni hanno un impatto sull’ambiente molto più profondo di quanto si potesse immaginare allora. Eppure, continuiamo a comportarci come se “il limite fosse il cielo”. L’economia mondiale si è sviluppata in modo completamente unidimensionale, ossia lineare. Estraiamo materie prime, le trasformiamo in merci, e le merci vengono utilizzate, consumate e poi gettate via. Fine della storia. Ciò significa che le conseguenze del consumo in questo sistema sono quasi sempre le stesse: i rifiuti, da intendersi come naturale conseguenza del processo di produzione lineare, anche detto economia take, make, waste (“prendi, fai, getta”). Attraverso l’obsolescenza programmata questo processo viene poi artificialmente accelerato, e non di poco. Si tratta di una conseguenza diretta e inevitabile del modello dei ricavi, e non è assolutamente casuale. Secondo una ricerca della United Nations University (UNU) nel 2016 sono stati prodotti a livello mondiale 44,7 milioni di tonnellate solo di rifiuti elettronici. Si tratta di 1,6 milioni di camion da quaranta tonnellate, abbastanza da creare una fila di 28.000 chilometri, tre volte la distanza la distanza tra Roma e Tokyo! E nel 2021 l’UNU prevede che la cifra aumenterà del 17%, arrivando a 52,2 milioni di tonnellate (pari ad altri 4.700 chilometri).
Il problema del “prodotto come problema”
Quello del prodotto come problema è un modello dei ricavi con un’unica logica: quella finanziaria. Lo scopo è il guadagno del produttore, il resto non conta. I vantaggi sono quindi in tutto e per tutto pecuniari e vanno esclusivamente al produttore. I costi, invece, no, o almeno non direttamente. I costi vengono esternalizzati e ricadono sul consumatore, poi sull’ambiente e via via sulla società sotto forma di inquinamento e di cambiamenti climatici. Nonostante varie iniziative che cercano di rendere visibili questi costi anche in termini finanziari, come il true-cost accounting e il TEEB (The Economics of Ecosystems and Biodiversity), l’ambiente naturale non ha ancora un listino prezzi. Eppure, questi costi riguardano la precondizione più essenziale della nostra esistenza: un ambiente vivibile. Il produttore considera l’ambiente come un campo di gioco, non come qualcosa di cui tenere conto. In breve: i guadagni vengono privatizzati e i rischi socializzati. In questa storia, il consumatore ha poca scelta. Acquista dei prodotti di cui diviene proprietario e, senza saperlo né volerlo, si assume la responsabilità di quello che accade al prodotto. In tal modo la proprietà diventa un rischio. Ma mentre alcuni rischi si possono anche evitare, per esempio non bevendo o fumando o mettendo i soldi su un conto di risparmio anziché investirli, alla proprietà è quasi impossibile sfuggire.
Inoltre, i problemi più grandi si presentano nel lungo termine. Le materie prime estraibili sono limitate e in un sistema lineare finiscono inevitabilmente per esaurirsi. Sta già accadendo: nel 2011 la PWC ha definito la scarsità di materie prime una “bomba a orologeria”. L’immagine è corretta, anche se dobbiamo renderci conto che quella delle materie prime è una bomba destinata a implodere, più che a esplodere. A causa della gigantesca crescita economica in atto dalla Rivoluzione industriale, le materie prime scompaiono sempre più rapidamente.
Questo trend è in continua accelerazione: in Cina, per esempio, negli ultimi tre anni è stato consumato più cemento che negli Stati Uniti in tutto il XX secolo! Ma mentre le economie crescono esponenzialmente, la quantità di materie prime disponibili si riduce in misura analoga. Di questo passo, la dotazione di molti minerali metallici si esaurirà entro questo secolo, soprattutto molte terre rare, indispensabili per la produzione di apparecchi elettronici. Persino la proverbiale sabbia del mare sta iniziando a scarseggiare. Poiché la sabbia del deserto non è adatta alla produzione di cemento, i prelievi di sabbia illegali stanno minacciando le zone costiere e i delta fluviali di tutto il mondo. La logica del modello dei ricavi comincia a vacillare già sotto il profilo finanziario: i produttori devono confrontarsi con oscillazioni dei prezzi delle materie prime e non possono più contare sull’approvvigionamento di quelle di cui hanno bisogno per i loro processi di produzione. Quando alla fine non ci saranno più materie prime disponibili (almeno non a un prezzo che consenta ancora dei guadagni), se non si fa nulla per conservare le materie prime già estratte si fermerà anche il processo produttivo, e questo segnerà la fine del modello dei ricavi legato al prodotto come problema. E tutto ciò avrà enormi conseguenze sul piano sociale.
Separare i rifiuti?
Sappiamo che, se non interveniamo, il modello dei ricavi e del processo di produzione lineare a esso associato finirà per divorare tutto, compreso se stesso. Eppure, non se ne discute o quasi. Sì, separiamo i rifiuti, cerchiamo di riciclare qualcosa, ma nel migliore dei casi si tratta di mezze misure, di gran lunga insufficienti. L’Italia ricicla il 76,9% della quantità totale di rifiuti, poco più del doppio rispetto al totale del riciclaggio in Europa. Nell’Ue la media è infatti del 36%, per non parlare della gestione dei rifiuti a livello globale. Il problema della zuppa di plastica e le immagini della “crisi dei rifiuti” di Beirut rendono la questione più che evidente. E anche quando si ricicla, si recupera solo una frazione del valore originario del materiale, un processo chiamato downcycling, una dequalificazione del rifiuto. Ciò significa che continuano a valere i principi del sistema lineare: il ritmo viene al massimo un po’ rallentato, e gli errori vengono ottimizzati. Le norme adottate dai governi per evitare gli sprechi sono insufficienti, e questo vale anche per gli attuali sistemi di recupero delle materie prime. Il problema è più profondo e, come quasi tutti i problemi, non lo si può risolvere contrastandone i sintomi. Anzi, contrastare i sintomi distoglie l’attenzione dal vero problema, l’economia lineare, e quindi in un certo senso vi contribuisce perfino. Se un medico, dopo averci visitato, ci mandasse a casa con qualche antidolorifico senza studiare più a fondo il problema che provoca i nostri sintomi, lo troveremmo decisamente irresponsabile e ci rivolgeremmo a un altro dottore. Invece, a quanto pare, troviamo corretto un simile atteggiamento quando si tratta dell’ambiente in cui viviamo, pur se costituisce la premessa fondamentale per l’esistenza di tutto il resto, modelli dei ricavi, catene di produzione e medici compresi. La domanda è: come se ne esce? Come possiamo liberarci di questi modelli dei ricavi, di questo consumo eccessivo e di questo spreco smisurato? L’innovazione e la tecnologia possono esserci di aiuto? No, se vengono sfruttati per pianificare l’obsolescenza programmata, perché come si è visto ciò non fa che aumentare i rifiuti e la produzione. È possibile una via diversa?
Prigionieri di un sistema
Nella Germania orientale vigeva il contrario dell’obsolescenza programmata. Nella ex-DDR era stato stabilito per legge che gli oggetti dovessero durare almeno venticinque anni. Naturalmente, questa misura non era dettata dall’idealismo; la Germania dell’Est era isolata dall’Occidente e pertanto la libera circolazione del capitale e delle merci tipica di un sistema capitalistico non era possibile. L’offerta nei negozi era minima e i cittadini disponevano di mezzi finanziari altrettanto limitati. La scelta era scarsa, e per alcuni prodotti, come un’automobile, bisognava addirittura aspettare degli anni. Le autorità tedesco-orientali ritenevano perciò che la qualità dei prodotti dovesse essere buona. Attribuirono pertanto la responsabilità ai fabbricanti, senza addossarla ai consumatori, come è invece diventato normale per noi. Ovviamente gli oggetti non durano in eterno. Prima o poi anche il prodotto migliore si rompe, ma possiamo cercare di procrastinare il più possibile questo momento riflettendo attentamente su un progetto e realizzando gli oggetti in modo artigianale, cioè con cura e amore, e/o facendo in modo che tutti i componenti possano essere sempre sostituiti facilmente. Occorre perciò elaborare nuovi modelli dei ricavi e separare la crescita economica e il benessere dall’uso delle materie prime. Il nostro compito più importante rimane quello di riconnettere la possibilità dell’azione e la responsabilità delle sue conseguenze. Chi prende le decisioni nell’ambito del processo produttivo deve assumersi la responsabilità delle conseguenze che ne derivano e non semplicemente trasferirle ad altri. Solo così potremo fare in modo che fin dallo stadio iniziale si tenga conto di ciò che accadrà a lungo termine anziché trasferire questo compito, in un sistema economico lineare, al consumatore, che alla fine non sa più cosa fare. Per questo motivo occorrono nuove regole del gioco: trasformare il prodotto in un servizio, come viene illustrato nei capitoli seguenti. Nel nuovo modello economico il consumatore non acquista un prodotto, ma ottiene una prestazione. Solo chi è capace di modificare i modelli dei ricavi riesce anche a cambiare la realtà.