20 settembre 2013. Luca ha ventidue anni. Percorre con il suo scooter via Baccarini, nel cuore del quartiere Romanina, quadrante est della capitale d’Italia, feudo del clan Casamonica. L’ultima frontiera del controllo del territorio, del pizzo, del pedaggio imposto a forza. Il ragazzo rallenta per tentare di farsi spazio tra un pugno di persone in mezzo alla strada. Improvvisamente uno di loro gli sferra un colpo sul casco e lo accusa di aver ucciso un loro familiare.
Atteggiamento intimidatorio, urla, grida. Luca tenta invano di svelare un equivoco, non è lui che stanno cercando, è solo uno del quartiere che, tra l’altro, appartiene alle forze armate. È l’inizio di un pestaggio, di un assalto violento e senza sosta. Solo l’arrivo dei carabinieri fermerà il linciaggio con un arresto in flagranza. Luca accetterà poi 18.000 euro per ritirare la querela, ma la Procura procederà d’ufficio e i due Casamonica coinvolti, Enrico e Consilio, verranno condannati in primo grado a un anno e mezzo con l’attenuate per il pronto risarcimento della vittima. In secondo grado, Consilio verrà assolto e a Enrico verrà confermata la lieve condanna.
A cercare questo episodio sui giornali, non se ne trova traccia. Tanto meno nelle televisioni, locali o nazionali, o nei trafiletti di qualsiasi rivista. Eppure è uno degli episodi che il giornalista d’inchiesta Nello Trocchia, nel libro “Casamonica” (Utet, pp.179), da anni impegnato in opere di denuncia, racconta con dovizia di particolari per spiegare come opera il clan che sta mangiando Roma nell’indifferenza di regole e leggi. Nella sboria arrogante che li porta a usare le mani come armi, a ostentare un lusso sfrenato e cafone, a tenersi stretti il potere e spartirselo tra familiari, i Casamonica solo da poco hanno smesso di essere derubricati a bulli di quartiere impegnati in regolamenti di conti interni. Nel panorama romano del giornalismo di inchiesta, tra minacce e le difficoltà del lavoro precario, c’è chi li ha guardati da vicino, ha capito come e dove vivono, come operano, quali e quanti dei loro abusi vengono tollerati.
Mafia capitale ha risvegliato tante coscienze e istituzioni dormienti e dice quello che molti sapevano già: a Roma le mafie operano e fanno affari
«Nonostante per anni si sia asserito che a Roma c’erano solo rami secchi o, al più, una piccola guerra tra bande – racconta Trocchia a Linkiesta – Mafia capitale ha risvegliato tante coscienze e istituzioni dormienti e dice quello che molti sapevano già: a Roma le mafie operano e fanno affari. E nello scenario del territorio romano, diverso, per conformazione e politica, da tutti gli altri, volevo soffermarmi proprio su un clan autoctono, stabilito e radicato a Roma, che ha delle peculiarità interessanti. Un clan che, oltre a restare troppo spesso impunito, ha una caratteristica distintiva che lo unisce anche alle mafie straniere: la lingua. È un unicum che diventa essenziale quando i componenti di questa famiglia devono nascondere affari, contatti, relazioni e reati. I Casamonica parlano il sinti e lo incrociano con il dialetto, formando un codice incomprensibile anche per gli interpreti più bravi, impauriti, tra l’altro, dall’assenza di sicurezze e tutele. Questo clan è diventato una cassaforte impenetrabile: sono romani ma parlano straniero, decidono loro quando e come apparire, costruiscono edifici e acquistano case rendendo alcune vie della capitale inaccessibili e sorvegliate.»
In un sentenza del 26 gennaio 2013, il Gup del Tribunale di Roma scriveva che “si tratta di uno dei gruppi malavitosi più potenti e radicati nel Lazio, i cui affiliati dichiarano in forma costante, quasi indefettibile, un reddito inferiore alla soglia di povertà ma vivono in ambienti protetti da recinzioni, videocamere, vigilanza armata”.
Prima zingari, poi mafiosi. Estorsione, usura, intestazione fittizia di beni, spaccio di stupefacenti. L’operazione Gramigna del luglio 2018 aveva inferto un primo duro colpo al clan: 37 le ordinanze di custodia cautelare eseguite su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia per reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. Un’operazione della procura proseguita il 15 aprile scorso (Gramigna bis) con un altro schiaffo al sistema del clan: 23 misure cautelari emesse dal gip del Tribunale di Roma su richiesta della locale Direzione distrettuale Antimafia, nei confronti di altrettanti soggetti appartenenti alle famiglie Casamonica, Spada e Di Silvio.
Quando non si denuncia, quando si ritirano le querele per paura, quando in alcune aree della città lo si riconosce come egemone in tutti i settori, quando le condanne sono lievi, quando persistono le intimidazioni, lì c’è di nuovo e ancora mafia
Una cupola familiare, “un’unica razza” come si definiscono loro stessi, di tanti finti nullatenenti con regole proprie e un sistema interno di organizzazione capillare. Un fattore identitario che si lega al controllo del territorio visibile anche all’esterno ed esteso alle piazze di spaccio. Un potere che gli è riconosciuto anche da altri esponenti dello scenario criminale romano, da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi al clan degli Spada ad Ostia.
«Le organizzazioni criminali di stampo mafioso vengono punite ex art. 416bis c.p » continua Trocchia «E per anni, a Roma, l’associazione mafiosa non ha retto in tribunale. Di recente c’è stata una sentenza cosiddetta delle “piccole mafie” che spiega come si declina il 416bis anche rispetto ad altre articolazioni criminali più territoriali. Al di là del recinto giuridico in cui confinare questo clan, lo considero mafia perché ha delle caratteristiche precipue. Non solo il controllo territoriale, ma anche l’uso della violenza, la sottomissione della realtà imprenditoriale locale, l’omertà e l’impunità. Quando esistono contiguamente l’omertà e l’impunita c’è la mafia. Quando non si denuncia, quando si ritirano le querele per paura, quando in alcune aree della città lo si riconosce come egemone in tutti i settori, quando le condanne sono lievi, quando persistono le intimidazioni, lì c’è di nuovo e ancora mafia. Nel tempo, è divenuto il clan degli innominabili.»
“Casamonica” ricostruisce riga dopo riga tutti i livelli di potere, le parole d’ordine, i legami parentali, il ruolo preciso delle donne, di un clan che è stato in grado di mettere lo Stato al muro. Testimonianze, storie e vicende giudiziarie, alcune concluse con sentenze definitive altre ancora aperte, che dovrebbero levare ogni dubbio, anche ai più restii, sulla presenza mafiosa nella capitale d’Italia. Un libro che è viaggio in un mondo parallelo, è schiaffo nel rivelare le storie di chi, pur rinchiuso nel carcere di Rebibbia, è riuscito a far trapelare messaggi grazie a un rapporto confidenziale con alcuni agenti della penitenziaria. Passaggio di cocaina e hashish nascosti nelle cuciture degli accappatoi delle donne, colloqui più lunghi del consentito, aree verdi utilizzate per intercettare. Non un film, ma realtà accertata.
«Il pentito Massimiliano Fazzari, uomo di ‘ndrangheta battezzato in culla di cui ho raccolto testimonianze inedite,» spiega Trocchia «svela i rapporti dei Casamonica con altre cosche mafiose e il loro potere di infiltrazione. Un dato rilevante: prima di pentirsi Fazzari aveva inviato alcune lettere alla direzione distrettuale antimafia di Roma preannunciando l’intenzione a collaborare. Ebbene, durante un colloquio in carcere, la compagna lo aveva informato che i Casamonica sapevano già che voleva pentirsi».
C’è voluto tempo, ci sono voluti gesti di manifesta presenza, ma i Casamonica sono sempre stati lì
La prima testimone di giustizia Debora Cerreoni, romana e incensurata, una “gagè” sposata con Massimiliano Casamonica, li definisce “malati di potere”. Dario De Simone, boss dei Casalesi, oggi pentito, confessa a Trocchia che “con gli zingari non abbiamo mai avuto a che fare, ma loro su Roma sono una presenza decennale e fissa” e ricorda un pranzo con Michele Senese, camorrista e re del narcotraffico scampato alla giustizia per una simulata pazzia, in cui il peso dei Casamonica gli era stato evidente.
C’è voluto qualche tempo in più affinché la presenza dei Casamonica nel territorio romano fosse riconosciuta anche dai cittadini. Nell’agosto del 2015, con immagini televisive di petali piovuti dal cielo e la musica del Padrino di accompagno, a piazza Don Bosco il carro funebre di Vittorio Casamonica, scortato dai vigili urbani, costeggiava un grande ritratto del defunto con la scritta “Re di Roma”. C’è voluto tempo, ci sono voluti gesti di manifesta presenza, ma i Casamonica sono sempre stati lì. Prima da faccendieri della Banda della Magliana, poi al fianco di boss che arrivavano da altre terre in cerca di affari o ricchi politici e uomini dello spettacolo bisognosi di droghe o prestiti. Sono sempre stati lì.
«Molti hanno identificato il potere dei Casamonica con il funerale di Vittorio e con la testata al collega Daniele Piervincenzi, colpito dagli Spada imparentati con i Casamonica. Poi Mafia Capitale, la presenza a Porta a Porta, per citarne alcuni. Ecco che, nell’era dell’immagine, tutto appare pittoresco e solo una scena Pulp ha smosso qualcosa. Ma queste cose i Casamonica le hanno sempre fatte. Da anni e per anni. E il loro feudo continua a essere incontrastato».
A Roma, per chi denuncia, continua a respirarsi un clima asfissiante. Intimidazioni a giornalisti, a magistrati, a comuni cittadini che provano a ribellarsi. «Le intimidazioni e l’omertà sono la diretta conseguenza dell’assenza dei poteri statuali. Se le istituzioni sono poco credibili, i clan vengono riconosciuti e ben accettati dai cittadini » conclude Trocchia «La risposta alla tracotanza del potere dei Casamonica, come più in generale a tutte le mafie, è la convenienza dell’onestà. È la presenza costante nei territori soffocati dalle mafie, per illuminarli, per viverli. È bene che se ne parli, bene che altri colleghi ne scrivano e che i magistrati facciano il proprio in sede giudiziaria. In una città che è un colabrodo in termini di regole, dove le mazzette girano per la qualunque, in un vuoto di cultura così evidente, inevitabilmente crescono fenomeni criminali di questa natura e il cittadino è portato a normalizzarli. Se noi rincorriamo gli eroi, le figure rappresentative, non vinceremo mai questa battaglia. Gli eroi sono il trionfo della delega. Quando noi costruiamo queste figure, abbiamo abdicato al nostro ruolo, che è mettere un granello nell’ingranaggio ed essere attivi e partecipi. Se invece percepiamo normale l’ illegalità, la scorciatoia, la corruttela, l’omertà e il silenzio, perderemo. E, assicuro, la mafia non è invincibile.»