Se pensate che il buddhismo sia solo mindfulness e meditazione silenziosa (e altro ciarpame occidentale), vi state dimenticando di una componente fondamentale della storia e della tradizione di quella religione: la musica. E soprattutto, della sua notazione scritta.
È una storia che, nell’occidente convinto di aver inventato con il pentagramma il sistema di trascrizione musicale perfetto, può sembrare strana. Eppure, con l’arrivo del buddhismo in Tibet, avvenuto nel settimo secolo, si è sviluppata una vera e propria scuola di canti, di “suoni santi” e di cerimonie. Il loro valore sacrale era enorme: la musica, almeno nella tradizione tibetana, diventa “un modo per trasformare la coscienza umana”, secondo l’esperienza del “mantrayana” (da cui la parola “mantra”), un momento che gli occidentali considererebbero di ispirazione divina e che, per loro, è una questione di armonia e di superamento di se stessi.
E allora, per trasmettere di generazione in generazione questo patrimonio di conoscenze, hanno elaborato un sistema che, come si scrive qui, “rappresenta, in modo simbolico, le melodie, i ritmi e gli arrangiamenti strumentali”. Ma non solo: insieme alla musica, viene regolato anche il gesto, la forma, la ritualità.
E allora le linee curve rappresentano “gli innalzamenti e gli abbassamenti dell’intonazione”, accompagnate da segni che spiegano “in quale spirito debba essere cantata la melodia, cioè scorrendo come un fiume, o con la leggerezza di un canto d’uccello”. Comprese tutte le modifiche che si possono fare con la voce mentre si pronuncia una vocale.