Ocean’s talesL’oceano? È una miniera d’oro (a patto di saperlo tutelare)

Gli oceani non sono solo una risorsa essenziale per il nostro benessere e la nostra sopravvivenza, ma anche un’incredibile fonte di ricchezza. La transizione ad una Blue economy sostenibile, però, va tutelata. Ecco come

Photo by Jakob Owens on Unsplash

L’oceano sembrerebbe una risorsa infinita, ma la realtà è profondamente diversa. Numerose evidenze scientifiche ci dicono infatti che la salute del mare è fortemente a rischio a causa della pressione esercitata, direttamente o indirettamente, dall’uomo.

L’oceano e i mari sono una fonte di risorse fondamentali per la nostra sopravvivenza e benessere e saranno sempre più indispensabili per affrontare molte delle sfide globali dei prossimi decenni, come la sicurezza alimentare, i cambiamenti climatici e la generazione di energia pulita. Al contempo, ci offrono molteplici opportunità per creare nuovo valore economico e sociale, a oggi ancora poco esplorate.

Giusto per dare un ordine di grandezza, se la Blue Economy – ossia tutte le attività riconducibili all’economia del mare – fosse un paese, essa, con i suoi $3.000 miliardi di valore complessivo stimato dall’OCSE per il 2030, sarebbe la settima economia mondiale. Più grande dell’Italia, per intenderci.

I settori coinvolti comprendono attività industriali e di servizi consolidate come il turismo, la pesca commerciale e la lavorazione del pesce, la cantieristica e la manutenzione navale, l’estrazione di petrolio e gas offshore, le attività portuali, le spedizioni e il commercio marittimo.

Oltre a quelle “tradizionali”, esiste tuttavia anche una serie di attività che possiamo chiamare emergenti, destinate ad assumere maggiore importanza nel prossimo futuro, come lo sfruttamento dell’energia rinnovabile generata dal mare (moto ondoso, maree, alghe, eolico offshore), l’acquacoltura industriale in ambienti marini aperti, o l’utilizzo della biodiversità marina, ancora tutta da mappare, per finalità medico-farmaceutiche. Alcuni di questi settori hanno registrato una crescita esponenziale nell’ultimo decennio: l’eolico offshore, ad esempio, è passato da 20.000 posti di lavoro creati nelle comunità costiere dell’UE a più di 210.000 nel 2018.

Lo sviluppo di una Blue Economy sostenibile potrà favorire la creazione di start up innovative in grado di contribuire a raggiungere i Sustainable Development Goals fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite

Questo sfruttamento ha però un costo elevato. Gli ecosistemi acquatici sono infatti già sottoposti a un fortissimo stress da sovra-sfruttamento, riduzione della biodiversità, acidificazione e inquinamento. Il deterioramento dei mari può avere conseguenze disastrose anche dal punto di vista economico e sociale: già oggi l’Ue stima un costo di quasi €11 miliardi all’anno determinato dall’inquinamento marino in settori come la pesca, l’acquacoltura e il turismo.

Diventa quindi fondamentale promuovere iniziative sostenibili e responsabili, e sviluppare nuove soluzioni tecnologiche e organizzative. Tra queste, quella della Commissione Europea che ha recentemente stanziato, nell’ambito dell’European Maritime and Fisheries Fund (EMFF), più di €15 milioni per il finanziamento di 22 progetti volti ad accelerare e agevolare la transizione verso una Blue Economy sostenibile. Numerose altre iniziative sono state lanciate poi a livello globale, promosse da aziende, investitori e ONG, anche in partnership tra loro (ad es. WWF e Rabobank).

Sarà sufficiente? Sicuramente è un inizio, ma questo percorso richiede di attivare e potenziare reti di innovazione in grado di riunire una varietà di attori pubblici e privati. Esso rappresenta però un’enorme opportunità per le imprese, che potranno sviluppare nuovi mercati, attraverso la ridefinizione dei processi produttivi, dei prodotti e dei servizi in una prospettiva compatibile con l’ambiente. Inoltre, lo sviluppo di una Blue Economy sostenibile potrà favorire la creazione di start up innovative in grado di contribuire a raggiungere i Sustainable Development Goals fissati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Insomma, il quadro non è dei più rosei, anzi azzurri, ma i margini per intervenire ci sono ancora.

A cura di Stefano Pogutz e Manlio De Silvio, SDA Bocconi School of Management Sustainability Lab

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