Pensarci beneE se fosse colpa dei capi? Quattro errori gravissimi che commette chi dirige una impresa

Il rapporto con dipendenti e sottoposti è complicato e irto di incognite. Il bravo leader è quello che sa pensare con la testa degli altri, senza perdere il contatto con la propria

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Secondo uno studio di Gallup (molto citato), solo il 15% delle persone dichiara di essere coinvolto o molto coinvolto sul luogo di lavoro. Il 70%, al contrario, confessa di non andare ogni mattina pronto a dare il meglio. Un atteggiamento negativo che, alla lunga, va a danneggiare l’azienda e che, secondo i vertici, è da ricondurre alla sfrontata svogliatezza dei dipendenti. E se invece il problema fossero i capi?

Secondo questo articolo pubblicato a Entrepreneur, sono tanti gli atteggiamenti sbagliati messi in atto da chi comanda. Vanno a minare il rapporto con i sottoposti, rovinano la fiducia che i lavoratori nutrono in se stessi e nell’azienda, avvelenano il clima lavorativo. Non ci sarà da stupirsi allora se il risultato sarà disastroso. Nessuno vorrà lavorare più di quanto ritenuto necessario e sufficiente.

Ad esempio, uno dei comportamenti più pericolosi è quello di stare sulla difensiva quando i sottoposti esprimono delle critiche. È una delle scelte più sbagliate che si possano fare. Se il dipendente esprime un parere motivato, si basa in primo luogo su sensazioni e sentimenti personali autentici. Ignorarli o sottovalutarli significa, in ultima analisi, non considerare importante il loro modo di vedere e immaginare le cose cui si lavora. Non sono più “collaboratori”, nel senso più ampio del termine, cioè persone che lavorano insieme per raggiungere un risultato, ma semplici addetti a un servizio deciso per loro. Accettare il loro punto di vista significa valorizzare la loro personalità.

Altro errore è dare feedback su progetti non esaminati bene. Può capitare che, tra i mille impegni di un capo, si prenda sottogamba la revisione del lavoro dei sottoposti, con letture veloci e superficiali. Il risultato sarà un feedback che dirà di fare cose già fatte, o che risulterà così lacunoso da far perdere ogni credibilità da parte di chi, in quel lavoro, ci ha impiegato tempo e fatica. Si rischia in quel modo di sminuire il contributo dei dipendenti, lasciando passare un messaggio esiziale: il tuo lavoro non conta.

Più o meno collegato è, invece, l’atteggiamento di fornire indicazioni fondamentali per un lavoro dopo che questo lavoro è stato fatto. Qui non è in gioco qualche sottile gioco psicologico tra sottoposto e non sottoposto, ma solo la reputazione del capo: viene meno al suo ruolo di decisore e di organizzatore. L’immagine che darà sarà quella di un manager inaffidabile e poco serio. Qualcuno da cui stare alla larga.

La stessa cosa accade se si dà per scontato che le motivazioni, la visione e le ispirazioni siano le stesse per tutti. Questo è uno dei punti di frizione maggiore: “È facile assumere che la visione del capo sia quella che dà ispirazione anche a tutti gli altri. Non è così”. Alcuni forse la condividono, altri invece vogliono solo un aumento di stipendio, altri ancora vogliono solo perfezionare alcune abilità tecniche o di gestione. Ognuno, insomma, fa per diversi motivi. Per questa ragione il capo che insiste sulla sua visione delle cose contribuisce a distaccare i suoi sottoposti. Ne ignora i profondi desideri ma li considera comunque secondari. Per questo occorre muoversi con prudenza. Con azioni di convincimento, di motivazione e di avvicinamento.

Essere bravi capi non è difficile perché si fanno cose difficili. È duro perché bisogna sempre pensare con la testa di altre persone. Senza mai perdere il contatto con la propria personalità.

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