Festeggiamenti social a giorni alterni, quelli del ministro del Lavoro uscente Luigi Di Maio, impegnato com’è nella trattativa di governo all’ultimo sangue. Il 29 agosto, a pochi minuti dalla pubblicazione dei dati dell’Osservatorio Inps, ha postato su Facebook una sua foto mentre sorride e stringe mani, con il titolone: “Continua il boom dei contratti”. Il giorno dopo, con i dati Istat che certificano il calo degli occupati a luglio, il silenzio. No comment, come se niente fosse, concentrato com’era a dire che i decreti sicurezza salviniani non si toccano. Forse perché quel “boom” dei contratti, dopo un anno dal suo decreto dignità, che ha irrigidito i requisiti dei contratti a termine, in effetti non c’è. E basta mettere in ordine i dati uno a uno, al di là della campagna elettorale permanente, per capire che quel decreto che – come ricorda Di Maio – «io stesso ho voluto» non ha fatto crescere affatto il lavoro in Italia. Con il ministro grillino che si dirige ormai verso l’uscita, allora è tempo di bilanci. E i risultati sono tutt’altro che positivi.
Gli ultimi dati Istat dicono che a luglio 2019 si contano 18mila occupati in meno in totale rispetto al mese precedente. È il primo calo dopo cinque mesi consecutivi con il segno più davanti agli zero virgola, puntualmente celebrati da ministro e sodali. Il calo di luglio è dovuto a una diminuzione dei contratti dipendenti, sia quelli a termine su cui il decreto ha operato un giro di vite (-2mila), ma soprattutto di quelli a tempo indeterminato, su cui il decreto invece puntava. Meno 44mila contratti stabili in un mese. Gli stessi che Di Maio aveva accolto come “boom”. In compenso, sono tornati a crescere gli autonomi (+29mila). Tra i quali potrebbero annidarsi anche le famose false partite Iva, strumento per i datori di lavoro per aggirare il decreto dignità evitando turnover e assunzioni a tempo indeterminato.
A luglio 2019 si contao 44mila contratti di lavoro a tempo indeterminato in meno
La disoccupazione, in compenso, torna a salire al 9,9%, sfiorando ancora una volta la soglia psicologica del 10%, che pensavamo di aver lasciato ormai alle spalle. Allora, qualcosa non torna. E la realtà è ben diversa dai post sui social. Perché non basta un decreto a rivitalizzare il mercato del lavoro. Non a caso, l’emorragia di occupati a luglio si registra quasi soltanto tra i 35-49enni (-45mila), in quella fascia di mezzo senza incentivi e bonus giovani, che in un anno si lascia alle spalle quasi 200mila occupati in meno.
Il tasso di occupazione si ferma al 59,1%, al penultimo posto in Europa. Rispetto a luglio del 2018, è cresciuto dello 0,5%, pari a quasi 200mila occupati in più. Bilancio positivo, allora? Non proprio. Dietro questo segno più, si nasconde il crollo delle ore lavorate, ancora ben al di sotto dei livelli pre-crisi, che significa il boom di part time involontari, contrattini e minijobs. Cioè: lavoro povero e di scarsa qualità.
Se è vero che nel primo trimestre dell’anno, come ha sottolineato Di Maio, i contratti stabili sono aumentati – tra trasformazioni da contratti a termine e attivazioni – del 150,7% rispetto al 2018, il boom è tutt’altro che sotto i nostri occhi. Il vero numero da tenere in considerazione è che a giugno 2019, rispetto a giugno 2018, le assunzioni a tempo indeterminato sono state 14mila in meno. Con un totale di 158mila assunzioni in meno. Aumentano sì le trasformazioni, ma con un trend che rallenta ormai da tre mesi. I contratti a tempo determinato e quelli in somministrazione in meno, allora, non vengono compensati da quelli stabili. E la variazione netta dei rapporti di lavoro segna, in totale, 100mila contratti in meno in un anno.
L’emorragia di occupati a luglio si registra quasi soltanto tra i 35-49enni (-45mila), in quella fascia di mezzo senza incentivi e bonus giovani, che in un anno si lascia alle spalle quasi 200mila occupati in meno
Senza dimenticare il boom, questo sì, delle ore di cassa integrazione autorizzate, cresciute a luglio del 33,5% in un anno, con la cassa straordinaria cresciuta del 50,2% e quella in deroga del 317,5 per cento. Ammortizzatori frutto delle oltre 150 crisi industriali che, in un anno di lavoro, il ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico insieme non è riuscito ad avviare verso la risoluzione.
Se consideriamo le ore totali di cig equivalenti a posti di lavoro con lavoratori a zero ore – è il calcolo che ha fatto i Centro Studi Lavoro&Welfare – in questi primi sette mesi dell’anno (30 settimane lavorative), si determina un’assenza completa di attività produttiva per oltre 134mila lavoratori, di cui 83mila in cassa integrazione straordinaria. Il risultato è che si sono perse oltre 20 milioni di giornate lavorative dall’inizio dell’anno. Mentre i lavoratori, parzialmente tutelati dalla cig, in questi sette mesi hanno visto diminuire complessivamente il loro reddito di 670 milioni di euro.
In compenso, si dirà, c’è il reddito di cittadinanza. Ma anche qui, nel cavallo di battaglia del ministro Di Maio, quello che manca è proprio il lavoro. La fase due del reddito, con le proposte di lavoro da fare ai beneficiari, dopo cinque mesi di erogazione del reddito, non è ancora partita. Per le prime convocazioni si comincerà, in ritardo, il 2 settembre. Ma solo il 30% di chi ha fatto domanda potrà essere avviato al lavoro.