* È una storia, questa. Una storia d’amore. Iniziata quarant’anni fa, e mai finita. Ed è anche la storia d’un viaggio nell’Italia del 2019, epico e comico, ebbro e stupefatto, sventatissimo, intrapreso su una Jeep del 1979 senza né tetto né sportelli né parabrezza da un ventiduenne laureato summa cum laude e uno scrittore eremita, rinchiusosi in casa per sfuggire al successo planetario del suo unico libro.
Pubblichiamo come estratto il secondo capitolo de La mia ombra è tua di Edoardo Nesi (edizioni La Nave di Teseo).
La mia camera era molto più spaziosa di quella che avevo a casa. C’era una finestra che dava su un panorama di colline brulle, un vecchio letto di ferro battuto che cigolò quando mi ci sedetti sopra, un armadio di legno e una poltrona rivestita d’un tessuto a fiori.
Andai in bagno a sciacquarmi la faccia, e inviai per WhatsApp la foto alla mamma, col commento: Eccoci!
Quando tornai in camera, Mamadou mi fissava con un sorriso tagliente. Aveva ben più di quei cinquant’anni che gli avevo dato a prima vista, ma s’era tenuto in gran forma. Era tirato come una corda di violino. Portava una camicia bianca con le maniche arrotolate, e dagli avambracci gli spuntavano le vene come ai culturisti. Se a prima vista le spalle non parevano troppo larghe era solo perché si ritrovava dei gran trapezi che gli partivan subito sotto la nuca per arrivare ad attaccarsi bel- li gonfi alle clavicole, e le facevano sembrare strette anche se strette non erano.
– Cancella la foto. – Ok, – dissi, e la cancellai.
– L’hai mandata a qualcuno?
– No.
– Sicuro?
– Sì.
Mi fissò per qualche secondo. Mi accorsi che era passato al tu.
– Perché il Maestro non vuole che le sue foto circolino su internet o sui giornali, capito?
– Capito.
– Niente internet, niente giornali. Intesi?
– Intesi.
– Lui non legge i giornali. Non va su internet. Zero.
– Ho capito.
– Bene. Allora, Emiliano, ascoltami bene, – disse, minaccioso come solo i vecchi muscolosi sanno essere. – Patti chiari, amicizia lunga. In questa casa l’anarchia vige solo per il Maestro. Per gli altri, nessuno escluso, ci sono delle regole. La prima regola è: niente foto. Non lo sapevi, e quindi sei scusato. Ma niente foto, capito? Mai più.
– Va bene.
– La seconda regola è che gli appartamenti del Maestro sono al piano di sopra, e quelle scale non devi salirle mai, per nessuna ragione, capito? Dopo quello che è successo col tuo collega, non posso più transigere.
– Capito.
– Terza regola, il Maestro sta scrivendo. Sempre. Se pas- seggia in giardino, sta scrivendo. Se guarda le stelle, sta scriven- do. Anche se dorme, sta scrivendo. E non va mai disturbato. Non gli va rivolta la parola all’improvviso, perché è sempre sovrappensiero e prende paura facilmente, e ha il cuore deli- cato. Non gli vanno mai fatte domande. Non gli piacciono le domande. Capito?
Annuii.
– E ora c’è la regola più importante, Emiliano. Sappiamo tutti perché sei qui, ma del nuovo romanzo non si parla. Mai. Per nessuna ragione. Solo a sentirlo nominare gli si chiude lo stomaco.
Annuii.
– Sta scrivendo. È tutto quello che devi sapere, capito?
Annuii.
– E io non ne so nulla. Inutile chiedere a me. Ci provano sempre, i tuoi colleghi. Ma è inutile, capito?
A vedermi annuire ancora, zitto e attento e compreso e anche un po’ intimorito, Mamadou rinfoderò il sorriso tagliente e adottò di nuovo quello benevolo. Mi chiesi quale fosse il suo sorriso naturale. Quale fosse il vero Mamadou.
– Vieni, ti faccio vedere le hemerocallis.
– La bellezza del giorno?
– No, la bellezza di un giorno, – disse Mamadou, e mi portò in giardino, che in pratica coincideva col pratone che accerchiava la casa come un anello e doveva esser costato sforzi inenarrabili strappare al bosco, e mi mostrò questi fiorelloni molto colorati che, mi spiegò, duravano un giorno solo, dalla mattina alla sera.
– Il Maestro le ha aspettate per trecentosessantaquattro giorni, e per rivederle ne aspetterà altri trecentosessantaquattro.
Poi mi fece vedere il resto del giardino, indicando ogni pianta come se potessi apprezzarla, io che non distinguevo un pino da un cipresso. Mi mostrò le palme e i banani e le strelitzie e le cycas e le agavi. Gli oleandri, i rododendri, le azalee, le ortensie. Le camelie. Gli hibiscus. I rosmarini, i timi, le salvie, le maggiorane, le lavande. Gli elicrisi. I gelsomini. Le edere. Le passiflore. I glicini. Le bouganville. Le clematis. Le – o i, disse, non era sicuro – plumbago. I corbezzoli. I biancospini. Le olea fragrans. Le aucube. Le mimose. Le jacarande. I ginepri. Le araucarie.
– Le ha piantate tutte il Maestro, personalmente.
– Cosa c’è scritto su quella roccia?
– Nulla…
– Ma cos’è?
– Una specie di bersaglio.
– Un bersaglio per cosa?
– Per quando il Maestro spara.
– Ah… È un cacciatore?
– Un cacciatore? No, certo che no. Il Maestro non sparerebbe mai contro un animale. Dice che è cattivo karma. E poi non è proprio un grande tiratore. Gli ci vuole un bersaglio bello grande, e fermo…
– E quindi spara sempre a quella roccia?
– No, a volte anche in aria.
– E perché?
– Gli piace sparare.
Ci avvicinammo a questo immenso masso che spuntava dal terreno per due metri buoni e dava l’idea di esser lì dai tempi della creazione, immane e inamovibile, conficcato negli inferi. Infilai il pugno in una cavità nella roccia che stava proprio sotto la scritta MARTA, vergata a mano con la vernice bianca tutta sgocciolata.
– Marta?
– La sua ex moglie.
– E questo buco? Con cosa l’ha fatto?
– Col bazooka.
– Con cosa? – gli chiesi, ma si era già avviato verso un piccolo capannone agricolo, per mostrarmi le motociclette.
– La BMW R80 dell’81, l’Ancillotti Sachs del ’79, la Primavera del ’76, la PX dell’80, la PE dell’84 e una 50 Special, mi pare del ’78…
Mi guardò come se si aspettasse una qualche reazione, ma mi limitai ad annuire, e allora mi scortò di nuovo in casa, che era molto diversa dall’idea che avevo della dimora d’uno scrittore. Pareva più la casa d’un benestante o, come diceva mio padre, di un borghese. Niente bottiglie svuotate, portacenere pieni, studentesse mezze nude addormentate sui divani: della bohème non c’era nemmeno l’ombra nelle stanze pulitissime e ordinate che attraversammo prima d’entrare nella biblioteca – così la chiamò Mamadou – che invece era una grande sala disordinatissima, piena di libri fino all’inverosimile.
Oltre a quelli che affollavano gli scaffali di una grande libreria di legno antico, ce n’erano accatastati ovunque: sulle poltrone di pelle, sui tavoli, sui davanzali delle finestre, sui divanetti gemelli a quadroni rossi e neri, e persino a terra, in pile appoggiate alle pareti e alte quanto un uomo, che non si sa come facessero a restare ritte.
– Bisogna stare attenti a muoversi, qui…
– No, è tutto stabilissimo. Non ti fare ingannare da ciò che può sembrare disordine o addirittura incuria, Emiliano. È solo abbondanza. Come vedi, è tutto ordinato, tutto catalogato. Se vuoi un autore, me lo dici e te lo trovo.
Era una raccolta impressionante. Di molti scrittori sembrava esserci la bibliografia completa, e degli autori anglosassoni molte opere erano in lingua. In cima a una pila vidi la raccolta di tutte le opere di Epitteto.
– Questo è veramente notevole. Posso dargli un’occhiata?
– Ma certo. – Sorrise compiaciuto.
Lo sfogliai. Aveva le orecchie di ciuco e le sottolineature.
C’era tutto: le Diatribe, il Manuale, i Frammenti, lo Gnomologio. Del Manuale eran presenti in appendice anche le versioni del Poliziano e del Leopardi. Una gemma.
– Ti dispiace se lo tengo per qualche giorno, Mamadou? Sai, il mio percorso di studi ha ingiustamente trascurato Epitteto, e quindi lo conosco solo attraverso la manualistica, ma è un filosofo molto importante.
– Eh sì, io ci sono arrivato grazie a Salinger. Mi voltai a guardarlo.
– Piace molto a Franny, Epitteto, – disse.
– Ma certo, è vero.
Gli si illuminarono gli occhi.
– Tienilo pure per un po’, ma ricordati di rimetterlo esattamente dov’era, mi raccomando, sennò il Maestro non lo ritrova.
– Certo. Grazie. Mi fissò per qualche secondo.
– E poiché sei un giovane studioso, ti dirò che al piano di sopra c’è un’altra biblioteca, ma quella purtroppo non posso fartela visitare. È la biblioteca privata del Maestro, ci sono le prime edizioni. Non lo dovrei dire, ma c’è anche una copia de Du côté de chez Swann firmata da Proust…
Sorrisi.
– Buon per lui. Ma io, Mamadou, non son mica un ladro di libri…
– Lo so, lo so, – disse, quasi imbarazzato, – ma davvero non posso fartela vedere. Mi dispiace.
Uscimmo dalla biblioteca e mi guidò lungo un corridoio col pavimento di travertino verso una grande stanza senza finestre che chiamò la stanza del cinema, su una parete della qua- le c’era il più grande televisore che avessi mai visto, e davanti al televisore una poltrona di pelle arancio con un tavolino di legno, e sul tavolino un piccolo vassoio d’argento, e dietro la poltrona, a cingere la stanza, centinaia di dvd e blu-ray e vhs facevano il giro delle pareti.
Poi passammo alla stanza della musica, che intorno a una poltrona di pelle arancio gemella dell’altra e a un tavolino di legno anch’esso gemello dell’altro, con lo stesso vassoietto d’argento appoggiato sopra, accoglieva invece centinaia di vinili e pile e pile e pile di audiocassette stipate intorno a due vecchi giradischi e a una mezza dozzina di voluminosi appa- recchi pre-digitali pieni di manopole, levette, selettori, lucine, quadranti e lancette, che Mamadou sfiorò con una carezza mentre me li mostrava.
Usciti da lì rientrammo di colpo nell’apollineo, come se la casa fosse divisa in zone la cui sovranità spettasse a persone diverse: visitai la cucina col pavimento a scacchi bianchi e marroni tirato a lucido e i paioli di rame alle pareti, la dispensa coi salami e i prosciutti appesi a stagionare, una grande sala da pranzo con i muri riempiti di deprimenti disegni a carboncino eseguiti dalla stessa mano, e poi percorsi un altro corridoio col pavimento di travertino che si fermava di fronte a una porta chiusa, oltre la quale c’erano gli appartamenti della figlia del Maestro che studia a Londra, anch’essi impossibili da visitare.
– Manca solo la piscina…
– Quando il Maestro vuole fare il bagno, va al mare.
Poi Mamadou mi scortò in camera mia e mi pregò di rimanerci. Alle due arrivò con un piatto di penne all’olio e una caraffa d’acqua, e disse che sarebbe tornato a cercarmi più tardi. Avevo il pomeriggio libero, ma per varie ragioni era meglio se non uscivo dalla stanza.
– Niente di preoccupante, ma è meglio così, credimi.
E così passai il resto del pomeriggio chiuso in camera, sdraiato sul letto, a non far nulla. Mentre giocavo col telefonino mi venne in mente di googlarlo più in profondità, il Vezzosi, e dopo uno slalom tra le decine di video di lettrici che leggevano commosse lunghi passi del romanzo, scovai un’intervista televisiva del 1995, nella quale raccontava di non saper davvero spiegarsi il successo del libro e confessava di aver appena smesso con la cocaina per via della nascita di sua figlia. Lo diceva tranquillo e sereno, però: non era uno di quei pubblici lavacri delle celebrità che vogliono ripulirsi l’immagine. Sorrideva. Pareva sollevato, quasi felice. Non si pentiva, non spiegava perché aveva cominciato a drogarsi, non dava la colpa al successo o alla sua famiglia o al mondo cattivo, non chiedeva scusa a nessuno. Non diceva nemmeno di aver sbagliato. Annunciava solo di aver smesso, e una volta per sempre, e poi disse che questa sarebbe stata la sua ultima intervista, perché in televisione non ci sarebbe più tornato.
Feci una doccia, poi mandai un messaggio ad Allegra per raccontarle che ero diventato l’assistente del Vezzosi e lei rispose subito, complimentandosi. L’aveva letto, I lupi dentro. Chiesi se la potevo chiamare, e fece un po’ di storie, ma poi cedette.
– Davvero l’hai letto? Ma quando?
– Un anno fa, mi pare. Me l’avevano consigliato. E non è male, sai? Forse un po’ troppo melodrammatico, cioè no, romantico, ma non è male, davvero: ci sono un sacco di cose belle… Deve essere un cavallo, questo Vezzosi, perché con tutto il successo che ha avuto, non ha più scritto nulla, lo sapevi? E poi è bellissimo, uno degli uomini più belli d’Italia…
Quando provai a sterzare la telefonata su noi due, Allegra ricorse ai soliti monosillabi, e dopo poco mi congedò.
Anche la mamma disse che il Vezzosi era bellissimo.
– Accidenti, com’è bello nella foto: ancora di più di quand’era giovane, – cinguettò, e quando si raccomandò per l’ennesima volta che gli chiedessi di firmare e dedicare la sua copia, mi irritai. Le chiesi perché ci tenesse così tanto.
– Io non ti capisco, sai, davvero: sembri una ragazzina, mamma. E poi bello non è, credimi, te lo dico io. È grasso e vecchio, e gonfio… E anche maleducato, se lo vuoi sapere!
La mamma rimase zitta per qualche secondo, interdetta, e mi pentii d’essere stato così sgarbato. Provai a riaccomodare, assicurandole che gliel’avrei fatto firmare quella sera stessa, il libro con la copertina tutta sbertucciata che mi aveva affidato con gli occhi lucidi, ma ormai c’era rimasta male, e la telefona- ta finì poco dopo, miseramente.
L’avevo lì accanto a me, sul comodino, la copia della mamma. In copertina c’era una foto in bianco e nero di un ragazzo e una ragazza che camminavano abbracciati davanti alla Porta del Paradiso, quella del Battistero. La aprii, la sfogliai, lessi l’epigrafe.
Le poesie hanno i lupi dentro. Jim Morrison
– Cristo, – mormorai.
Ore intere mi tennero lì da solo a non far nulla. Mentre giocavo col telefonino li sentivo ragionare, ridere, armeggiare in casa e in giardino, vociare, salire e scendere le scale di corsa. A un certo punto ci furono altre raffiche, almeno una dozzina, e poi un’esplosione. Andai alla finestra impaurito e vidi alzar- si lenta una nuvoletta di fumo bianco dal fianco di una collina poco lontana.
Decisi di rifugiarmi in Epitteto, e praticamente ci caddi dentro. Che meraviglia, le Diatribe! Smisi solo al tramonto – il cuore rinfrancato dalle parole e dall’esempio di quel gran- de maestro, quando Mamadou bussò alla porta per invitarmi all’aperitivo.