Può un calciatore vincere un Mondiale, battendo in casa i padroni di casa (in quel caso l’imbattibile Brasile), conquistare la Coppa del Mondo ed essere, comunque, dispiaciuto? Eccome.
È il caso di Obdulio Varela, mitologico capitano della nazionale dell’Uruguay durante il Mondiale 1950, che fu giocato in Brasile – e che, secondo ogni pronostico, era destinato a essere vinto dal Brasile. Tutto era previsto, aveva detto Jules Rimet, “tranne il trionfo dell’Uruguay”.
La finale al Maracanà (partita che poi sarà ricordata come “Maracanazo”) era una vittoria annunciata: addirittura, nel suo discorso di incoraggiamento alla squadra, il prefetto del Distretto Federale aveva rivolto un discorso che li dava già come vincitori: “Voi, brasiliani, che io considero vincitori del Campionato del Mondo. Voi, giocatori, che tra poche ore sarete acclamati da milioni di compatrioti. Voi, che non avete rivali in tutto l’emisfero. Voi che superate qualsiasi rivale. Siete voi che io saluto ome vincitori”. Quanto si sarebbe sbagliato. I musicisti, che dovevano suonare l’inno del Paese che avrebbe vinto (poi l’uso sarebbe cambiato) non avevano portato lo spartito dell’Uruguay. Lo stadio era “una bolgia”, come direbbero i telecronisti oggi. Chiunque, giocando contro il Brasile, si sarebbe intimidito. Chiunque tranne Obdulio Varela.
Il capitano, detto anche non segnò, non partecipò nemmeno alle azioni che portarono ai due gol con cui l’Uruguay riuscì a battere il Brasile (il secondo, decisivo, fu di Ghiggia, che anni dopo avrebbe detto: “Solo tre persone hanno zittito il Maracanà: Frank Sinatra, Giovanni Paolo II, io”), ma la sua presenza si rivelò fondamentale. Di fronte al tifo brasiliano, riuscì a tranquillizzare i compagni: “¡Los de afuera son de palo! Quelli là fuori non esistono)”, fu la frase che rimase nella storia. Li spronò anche dopo il gol subìto, che sembrava segnare l’esito della partita. Fu l’unico che tenne alto il morale della partita e, di conseguenza, fu il responsabile morale della vittoria.
Quando i 90 minuti finirono, la situazione era surreale: lo stadio era ridotto al silenzio e alle lacrime. I festeggiamenti, già pronti da giorni, furono annullati. La Guardia d’Onore, che doveva fare un picchetto con i vincitori, non si formò. Le autorità brasiliane scapparono. Solo Jules Rimet rimase: diede la coppa a Obdulio Varela, gli strinse la mano, ma non riuscì nemmeno a congratularsi. Fu battezzata “la peggiore tragedia nella storia del Brasile”. E nessuno pensò che fosse un’esagerazione.
Nella serata, i giocatori uruguayani uscirono a festeggiare. Il clima intorno a loro era funereo. Incontrarono solo persone che piangevano. Nel giro di poco, la gioia della vittoria cominciò a scemare e rimase un senso di pena. Si separarono. Alcuni, tra cui Obdulio Varela, andarono a bere una birra. Come racconta lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, fu in quel momento che il capitano dell’Uruguay rimase colpito. “Nel locale tutti stavano piangendo. Sembra una bugia; ma la gente aveva davvero le lacrime agli occhi. D’improvviso vedo entrare un tizio grande e grosso che piangeva disperato. Piangeva come un bambino e diceva: “Obdulio ci ha fottuti”, e piangeva sempre di più. Io lo guardavo e mi faceva pena. Loro avevano preparato il carnevale più bello del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio, glielo avevo rovinato io. Mi sentivo male. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza?”