ArancioniGoverno, i Cinque Stelle fanno un passo indietro, ma chi rischia davvero è il Pd

Sono partiti con il veto a Conte, la richiesta di discontinuità, l'esigenza di avere un vicepremier Dem e si ritrovano con Di Maio che parla di continuità e tiene 60 milioni di italiani appesi al voto di 100mila militanti grillini. E nessun vicepremier

Il passo indietro di Luigi Di Maio, che rinuncia alla poltrona di vicepremier, stretto nella morsa di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, sembra aver sbloccato in maniera risolutiva il lungo braccio di ferro tra Pd e M5s in vista della formazione del nuovo governo giallo-rosso. Tutto bene, quindi? Non proprio. Perché se Nicola Zingaretti sfoggia sorrisi in pubblico e mostra soddisfazione “per i passi avanti ottenuti”, in privato, nel chiuso delle stanze del Nazareno, comincia a serpeggiare un po’ di preoccupazione.

In particolare è stato il sondaggio di Swg, da sempre uno dei più attenzionati in casa dem, a far scattare il campanello d’allarme. In primis per il dato generale delle intenzioni di voto, che fa segnare una crescita di quattro punti del Movimento 5 Stelle e una lieve flessione del Pd. E poi il dato specifico degli elettori democratici, con un 35% che sostiene convintamente la scelta di Giuseppe Conte per il ruolo di premier (e un 58% che non la ritiene comunque una scelta inaccettabile).

Ecco, il sospetto che sta aleggiando negli alti vertici dem è che il Pd stia allevando una sorta di serpe in corpo, che potrebbe finire per cannibalizzare il progetto della creazione dell’unica, vera alternativa a Matteo Salvini. Diversi deputati e senatori – anche nella stragrande maggioranza dei quali, in queste ore, fa apparire il Pd un inedito blocco granitico a sostegno del segretario – stanno cominciando a storcere il naso. Perché, se è vero che è arrivato l’agognato passo indietro di Di Maio, è altrettanto vero che i dem di passi indietro, prima, ne avevano già fatti parecchi.

Se è vero che è arrivato l’agognato passo indietro di Di Maio, è altrettanto vero che i dem di passi indietro, prima, ne avevano già fatti parecchi.

“Siamo partiti con il veto a Conte, la richiesta di netta discontinuità, l’esigenza di avere un vicepremier dem – afferma uno di loro, lontano dai riflettori delle telecamere – e ci ritroviamo con Conte che si descrive come un premier super partes, Di Maio che parla di continuità e tiene 60 milioni di italiani appesi al voto di 100mila militanti grillini, e nessun vicepremier“. Quest’ultima, in particolare, è una questione da non sottovalutare. In tutta Europa, dalla Germania all’Austria, nei governi di larghe intese, la forza che ha più rappresentanza parlamentare esprime il premier, la seconda forza il suo vice. Quello che sembra un cedimento di Di Maio, quindi, è in realtà un cedimento del Pd.

La sensazione, specie negli ultimi giorni, è che il Pd abbia perso il controllo della trattativa. “Il motivo è semplice – ci spiega ancora il parlamentare dem – ed è parte integrante della natura stessa del Partito Democratico, che da sempre si considera l’unica forza politica davvero responsabile presente nel panorama politico italiano”. In pratica le pressioni dei mercati, della comunità internazionali, delle parti sociali, delle categorie economiche, che chiedono stabilità, fanno molta più presa sui dem che sui Cinque Stelle. Che ormai hanno capito di avere il coltello dalla parte del manico.

La situazione, rispetto all’inizio del confronto tra i due partiti, si è ribaltata. All’inizio il Pd ha avuto un approccio preciso, imposto dal segretario Zingaretti: governo sì, ma non a tutti i costi. I sondaggi, d’altronde condannavano i Cinque Stelle alla sostanziale irrilevanza in caso di elezioni anticipate. Al contrario lasciavano al Pd la speranza di condurre una campagna elettorale convincente, che avrebbe certificato il ruolo di unica alternativa credibile al successo annunciato del centrodestra.

Nel corso di tutta la trattativa, finora il Pd non è stato in grado di imporre la questione del programma

Dopo il secondo giro di consultazioni al Quirinale, è cambiato tutto. “Il Pd – racconta la fonte – non può più tirarsi indietro. E i Cinque Stelle l’hanno capito. Prima hanno imposto Conte, poi sono riusciti a far saltare il vicepremier. Oltre a tutto questo sono arrivate le provocazioni della votazione di Rousseau e del ‘non rinnego nulla di quanto fatto finora’”. E tra i dem c’è chi comincia a trattenere a fatica i mal di pancia. Carlo Calenda si è sfilato da subito, Matteo Richetti ha votato contro la relazione di Zingaretti in Direzione, il presidente del partito Paolo Gentiloni è molto preoccupato e il suo predecessore Matteo Orfini è tra i più critici, specie per la mancanza di discontinuità sbandierata dai grillini in tema di immigrazione.

Il dato di fatto è che, nel corso di tutta la trattativa, finora il Pd non è stato in grado di imporre la questione del programma, che poi, al di là dei nomi, è l’unica vera piattaforma su cui misurare la pluricitata “svolta” rispetto al governo precedente. Anzi, prima si è fatto trascinare nella battaglia del fango del totoministri e delle poltrone, e poi ha dovuto anche ingoiare il rospo di sentire Di Maio difendere l’impianto dei decreti sicurezza di Salvini e imporre una sorta di ultimatum programmatico sui punti identificativi (si fa per dire) del Movimento.

In questo senso, al Nazareno (e non solo) cominciano a temere che tutto questo possa trasformarsi in un boomerang. E che quindi si possa riproporre uno schema Lega-Cinque Stelle a parti invertire, con i grillini pronti ad erodere il consenso accumulato negli ultimi mesi dal Pd. “Se questo sarà il modo di fare dei Cinque Stelle anche quando saranno al governo – commenta ancora il parlamentare dem – non c’è da stare tranquilli. E si sa che chi usa meglio la propaganda, poi raccoglie più frutti a livello di consenso”.

A proposito di propaganda, dal Nazareno si continua a guardare con attenzione anche alle mosse di Matteo Renzi, un altro che in questo campo non teme rivali. In questi giorni i contatti tra lui e Zingaretti sono stati costanti. Ma l’intervista in cui l’ex rottamatore ha chiesto al governo di “puntare sulla crescita altrimenti non avrà i miei voti” ha fatto suonare il campanello d’allarme. E se Renzi – si chiedono preoccupati al quartier generale dem – avesse davvero in mente di fare dei gruppi parlamentari autonomi e stritolare il Pd, che si ritroverebbe al centro di una ulteriore faida polarizzante, da cui potrebbe uscire con le ossa rotte?

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter