La sinistra non arriva al 4%, la destra ha deluso al governo e l’Argentina senza alternative cede ancora alla tentazione del peronismo. Con il 48% dei voti ha vinto le elezioni presidenziali Alberto Fernandez, professore di diritto penale diventato leader del Partido Justicialista, il movimento fondato dal populista Juan Domingo Peròn nel 1947. Il ritorno dei peronisti è frutto del malcontento tra gli argentini per la politica di riforme e tagli alla spesa del presidente uscente Mauricio Macri che ha peggiorato l’economia già in recessione.
Entrato in carica nel 2015, il primo presidente di centrodestra dal 1916 aveva ereditato un Paese in perenne crisi che doveva restituire 57,1 miliardi di prestito concessi dal Fondo monetario internazionale. Dopo quattro anni di ricetta pseudo liberista e politiche di austerità Macrì ha lasciato l’Argentina ancora in recessione. Il tasso di povertà è arrivato al 35%, l’inflazione al 55%, la disoccupazione al 10.6%. E il debito pubblico è salito dal 40% al 97,7% del Pil. Non proprio un successo. E pazienza se il Peso si è svalutato del 15% rispetto al dollaro e se i mercati esteri sono spaventati all’idea che la nuova vice presidente sia la stessa Cristina Fernandez in Kirchner che al governo del Paese dal 2007 al 2015 ha causato la recessione con la sua politica di nazionalizzazioni forzate. Non sarà il rischio del nono default in cento anni a far evitare all’Argentina il proprio destino. Il peronismo non è una scelta, è il dna del Paese.
C’è anche un po’ di cabala nella ritorno dei peronisti alla Casa Rosada. La vittoria di Fernandez accade esattamente nove anni dopo la morte dell’ex presidente Nestor Kirchner che ha governato l’Argentina dal 2003 al 2007 prima di essere sostituito dalla moglie Cristina. Dai tempi di Evita, la politica dei peronisti è una questione di famiglia. In quegli anni il capo di gabinetto di Nestor era proprio Fernandez che ricoprì lo stesso incarico con l’arrivo di Cristina, ma resistette solo sette mesi prima di rassegnare le dimissioni per protestare contro alcune scelte economiche della neo presidente. In un decennio da critico del kirchnerismo si è ritagliato la figura di moderato.
E nelle elezioni vinte da Macrì del 2015, Fernandez appoggiò Sergio Massa, leader peronista in contrasto con la Kirchner. Un anno fa però il fronte peronista si è riunito. La expresidenta, ancora sotto processo per corruzione, ha fatto un passo indietro e ha offerto a Fernandez di fare il presidente offrendo il suo pacchetto di voti senza i quali sarebbe stato impensabile tornare al potere. Il bacino più fedele al peronismo è quello delle affollate periferie di Buenos Aires dove le disuguaglianze sono più accese e c’è il maggior numero assoluto di poveri nel Paese.
«Quattro anni fa sentivamo dire “non torneranno mai al potere”, ma una notte siamo tornati e saremo migliori di chi ci ha preceduto» ha commentato Fernandez subito dopo la vittoria nel quartier generale di Frente de todos, situato nel barrio Chacarita, di Buenos Aires. Il ritorno stile conte di Montecristo dei peronisti c’è stato, ora devono solo rimettere a posto i conti del Paese. Non sarà facile. Per capire quale sarà la strategia di Fernandez basta partire dal nome del cartello elettorale che ha creato per vincere le elezioni: Frente de todos, il nome non è scelto a caso. Il neo presidente ha cercato in campagna elettorale di dare l’immagine del saggio coordinatore in grado di creare un fronte di unità nazionale che va dai sindacati agli imprenditori per collaborare «in modo che gli argentini smettano di soffrire e ricostruire il Paese dalle ceneri che hanno lasciato».
Per farlo dovrà rinegoziare per prima cosa il debito col Fondo monetario internazionale e frenare la svalutazione del Peso. Per evitare la caduta ancora più repentina la banca centrale argentina ha speso oltre 20 miliardi solo negli ultimi tre mesi. Non ne restano molti altri nelle riserve auree nazionali. Quando Macri ha iniziato il suo mandato il cambio dollaro-Peso era 1 a 12, oggi è 1 a 65. Da questa sfida parte la presidenza Fernandez. Fin da subito deve mandare un segnale agli argentini che vedono da sempre questo indicatore come la capacità di un presidente di saper governare perché l’80% del debito pubblico del Paese è in dollari. Più sale il cambio, più sarà difficile ripagarlo. La prima mossa dopo la vittoria di Fernandez, l’ha fatta il consiglio di amministrazione della Banca centrale argentina: i cittadini argentini potranno acquistare solo 200 dollari al mese, prima il limite era a diecimila.
Uno dei misteri dell’Argentina è come un Paese con così tante materie prime invece di navigare nell’oro salti da un default all’altro. E i mercati temono proprio che alla prima difficoltà Buenos Aires torni alla vecchia tradizione di far saltare il banco e non pagare i creditori. Anche perché in campagna elettorale Fernandez ha promesso di aumentare le pensioni e di finire la stagione dei tagli di austerità per rilanciare l’economia con manovre anti cicliche. Molti argentini hanno ancora in mente la presidenza di Nestor Kirchner che portò a un po’ di crescita dopo il default del 2001. Ma a differenza di quel 2003, questa volta non c’è un ciclo economico positivo a tirare la volata.
Fernandez dovrà anche limitare la sua vicepresidente carismatica e a tratti caricaturale, che non accetterà un ruolo di secondo piano e soprattutto non ha mai ammesso che la crisi in Argentina è frutto anche delle sue politiche economiche. Di lei i mercati non si fidano, ma senza i suoi voti vincere sarebbe stato impossibile. Sarà decisivo capire chi tra il presidente e la sua vice inciderà di più nel gabinetto di governo. E poi Macrì ha perso, ma la sua non è stata una sconfitta totale. Quel 40% di argentini che ha votato ancora centrodestra sarà il cane da guardia contro gli eccessi del peronismo che non potrà più ripetere le nazionalizzazioni di un tempo.