Il caso dell’incontro segreto tra il ministro della giustizia americano e i vertici della nostra intelligence, propiziato dal capo del governo (precedente e attuale), è il primo serio incidente di percorso nell’irresistibile ascesa di Giuseppe Conte. Non perché finora, lungo quel percorso, al presidente del Consiglio non fosse già capitato d’inciampare, e anche ripetutamente; ma proprio per il motivo opposto, e cioè per la sua straordinaria capacità di rimbalzare da ogni caduta più intatto, impettito e pettinato che mai, in un coro di «ma che bravo» intonato da tutti i maggiori quotidiani, da alleati e avversari, in patria come all’estero, da Washington a Volturara Appula.
Non questa volta, però. Se persino un politico di esperienza, posato e accorto come Pier Ferdinando Casini dichiara che Conte farebbe bene a cedere la delega sui servizi, come gli ha già detto il meno posato ma non meno accorto Matteo Renzi, vuol dire che qualcosa si è rotto, in quell’ingranaggio apparentemente perfetto.
Fino a ieri, non c’era gaffe innocente o imperdonabile scivolone che apparisse capace di scalfirlo. L’8 settembre 2018 Conte poteva scandire dal palco della fiera del Levante di Bari un surreale discorso – scritto e preparato per l’occasione, per di più – in cui celebrava quella data «particolarmente simbolica della nostra storia patria», l’8 settembre 1943, come l’inizio «di un periodo di ricostruzione prima morale e poi materiale», un periodo «chiamato, con la giusta enfasi, miracolo economico», concludendo in un crescendo dadaista che il suo governo aveva «l’ambizione di ricreare nei cittadini la stessa fiducia verso il futuro che allora animava i nostri genitori». L’8 settembre. Il giorno cui autorevoli storici hanno dedicato libri dai titoli come «La morte della patria» (Ernesto Galli della Loggia) o «Una nazione allo sbando» (Elena Aga Rossi), e il cinema film indimenticabili come «Tutti a casa» (quello in cui uno smarrito tenente dell’esercito, Alberto Sordi, corre al telefono per avvertire il colonnello che «accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani»).
Non c’è da dubitare che su un’uscita del genere Danilo Toninelli sarebbe stato inchiodato per mesi, senza pietà, da tutti i giornalisti, commentatori e cabarettisti del paese. Conte, invece, niente
Non c’è da dubitare che su un’uscita del genere Danilo Toninelli sarebbe stato inchiodato per mesi, senza pietà, da tutti i giornalisti, commentatori e cabarettisti del paese. Conte, invece, niente. Anzi: la considerazione per la sua levatura di statista, per il suo piglio, per la sua competenza sono andati crescendo ogni giorno. Persino quando, a febbraio, a una banale domanda sui rischi dell’autonomia regionale rispondeva davanti alle telecamere: «Io sono, quale presidente della Repubblica, garante della coesione nazionale». Anzi: nei corridoi del potere, il commento più diffuso era che non già di clamorosa gaffe si trattasse, ma di lapsus freudiano, per non dire profezia.
Niente sembrava toccarlo. Pure le critiche assumevano l’aspetto di complimenti. «Confidiamo che nelle settimane della campagna elettorale europea, Conte userà tutto il proprio prestigio per pretendere dalla sua maggioranza un po’ più di disciplina», scriveva ad aprile, sul Corriere della sera, Ferruccio de Bortoli. In agosto, con la crisi di governo e il nuovo incarico, l’apoteosi internazionale, con gli elogi di Donald Trump e Angela Merkel. A settembre è accolto con tutti gli onori da Massimo D’Alema alla festa di Articolo Uno e da Maurizio Landini alle giornate del Lavoro della Cgil. Sulla perizia della sua pochette si innalzano lodi che non si sentivano dai tempi degli editoriali dedicati ai loden di Mario Monti.
Ancora una volta, quella che era apparsa a pochi ingenui come un’imperdonabile gaffe, la confusione tra l’8 settembre e il miracolo economico, assumeva d’un tratto i contorni della profezia: a conferma dell’incredibile capacità dell’avvocato del popolo di trasformare ogni disfatta in trionfo, ogni causa persa in un nuovo e più prestigioso incarico, rivendicando il carattere populista del suo primo governo, contro le élite di Bruxelles, e lo spirito europeista del secondo, contro i sovranisti appena scaricati.
Chissà se il gioco di prestigio riuscirà anche questa volta, magari in nome di nuove emergenze internazionali capaci di riunire, a suo sostegno, il leader dei populisti Trump e l’icona degli antipopulisti Merkel. Ancora una volta, i tedeschi e gli americani, una cosa incredibile: un nuovo miracolo politico del professor Conte.