Due cordoni di soldati dividono i manifestanti con le bandiere del Libano da un gruppo di sostenitori di Hezbollah. Gli scontri si sono da poco placati, ma la tensione resta alta. Il Partito di Dio e milizia alleata dell’Iran è parte di quel governo che da dieci giorni è oggetto delle proteste di migliaia di manifestanti a Beirut e in molte altre città del paese.
Dagli amplificatori montati su un palco nella vicina piazza dei Martiri e dagli smartphone tra la folla esce la voce del segretario generale Hassan Nasrallah, al suo secondo discorso alla nazione dopo l’inizio delle proteste. Sostiene il governo, solleva lo spettro di un vuoto di potere. Ha abbandonato la solita retorica della resistenza per assumere un tono paternalistico e suggerire la fine della contestazione.
Pochi minuti prima della sua apparizione sugli schermi, i suoi sostenitori sono arrivati alla piazza Riad al Solh, altro luogo del dissenso cittadino, davanti al palazzo ottomano in cui siede il governo, gridando slogan in difesa del loro leader, innescando così le violenze. Da giorni, uno dei cori più urlati dalle folle esasperate dal nord al sud del paese è infatti proprio contro di lui: «Tutti significa tutti (fuori), compreso Nasrallah».
A stupire in Libano, a rendere quella che ormai in molti chiamano «la rivoluzione d’ottobre», un evento senza precedenti nella storia del Paese, non è soltanto la presenza in piazza di diverse generazioni, classi sociali e religioni, unite nella comune accusa contro i leader politici, siano essi cristiani, musulmani sunniti o sciiti, druzi. I cori contro Nasrallah sono stati scanditi anche a Tiro, a Nabatieh, nelle cittadine di quel sud impoverito che è roccaforte dei due movimenti sciiti Amal e Hezbollah. Alcuni uffici locali dei partiti sono stati presi d’assalto da una folla arrabbiata, frustrata da anni di crisi economica, salari bassi, tagli di corrente elettrica, mancanza di servizi. La rivolta della strada sciita nei confronti dei propri leader confessionali è uno degli elementi che rende il dissenso libanese eccezionale e potente.
«Hezbollah e i suoi alleati pensano di star vincendo nella regione, contro gli americani, ma in realtà l’Iran che li sostiene sta perdendo sia in Libano sia in Iraq»
«Gli sciiti sono sudditi per i loro capi. Come lo sono a loro volta nelle rispettive comunità i cristiani e i druzi. In questo modo, voluto dai politici, gli sciiti resteranno sempre sciiti, e avranno sempre bisogno di un capo sciita», ci dice Ibrahim Chamseddine, ex ministro, figlio dell’ex presidente del Consiglio superiore sciita, Mohammad Mehdi Chamseddine, e voce critica dei due partiti dell’egemonia sciita in Libano. «Stiamo assistendo oggi alla fine della comunità e all’emergere del cittadino, anche se il sistema è molto forte e reagirà. Lo abbiamo già visto a Nabatieh con Amal e Hezbollah», quando sostenitori dei due movimenti hanno preso d’assalto la folla in protesta nella cittadina.
A creare unità nella protesta una crisi economica che si può riassumere in pochi dati: il 37% di disoccupazione nella popolazione sotto i 35 anni e il terzo debito pubblico più vasto al mondo, pari a 150% del pil. Sulla difficile situazione pesa l’incapacità – e la non volontà – del governo di gestire 1,5 milioni di rifugiati siriani su una popolazione di quattro milioni. «È la sclerosi del sistema politico che ha provocato la crisi economica, risultato dell’incapacità di governare di politici pronti soltanto a spartirsi la torta – spiega Karim Émile Bitar, direttore dell’Istituto di Scienze politiche dell’Université Saint-Joseph di Beirut – Nella piazza c’è la consapevolezza che la corruzione sia alla base del confessionalismo e che il confessionalismo sia alla base del sistema. Da qui, la richiesta della protesta: una trasformazione del sistema».
E infatti i cori della contestazione sono diretti a tutti gli attori della politica nazionale, qualsiasi sia la loro appartenenza religiosa: il presidente cristiano Michel Aoun, il premier sunnita Saad Hariri e lo speaker del Parlamento Nabih Berri hanno ricevuto tutti la loro razione di insulti, urlati dalle folle e consegnati alle scritte sui muri delle città. Hanno parlato alla nazione, con giorni di ritardo, proponendo riforme economiche cosmetiche ma difendendo il governo. Lo ha fatto ieri nel suo secondo discorso anche Nasrallah, criticato per la prima volta apertamente dalla sua stessa base. «Queste critiche potrebbero portare il Partito di Dio a mostrarsi più comprensivo alle richieste popolari, ma in realtà Hezbollah è concentrato sui propri obiettivi strategici regionali, e lo status quo in Libano gli conviene. Questa protesta lo mette in imbarazzo».
Otto anni di guerra per procura in Siria, a fianco degli iraniani impegnati a sostenere il dittatore Bashar el Assad, hanno drenato le risorse delle milizie e sono costati al Partito di Dio centinaia di morti tra le sue file per una causa non nazionale. Sullo stato di salute di Hezbollah pesano le sanzioni americane sull’Iran, principale finanziatore. E così, ad affievolirsi, è quello Stato nello Stato che permetteva al movimento di essere welfare comunitario, di pagare ospedali e scuole, di trovare posti di lavoro.
«Hezbollah e i suoi alleati pensano di star vincendo nella regione, contro gli americani, ma in realtà l’Iran che li sostiene sta perdendo sia in Libano sia in Iraq», dice Nassif Hitti, ex ambasciatore della Lega araba a Parigi, libanese. E proprio ieri sono riprese le proteste a Baghdad e in altre città irachene. Ancora una volta ci sono stati scontri con le forze dell’ordine, cinque manifestanti sono stati uccisi. A sollevare la piazza irachena le stesse frustrazioni di quella libanese: la corruzione della classe politica, l’inettitudine del governo, la mancanza di servizi per una popolazione provata da decenni di guerre e conflitti interni.
A inizio ottobre, erano morte oltre cento persone negli scontri, e Reuters ha da poco rivelato che appostati sui tetti della capitale irachena a prendere di mira i manifestanti c’erano decine di tiratori scelti di quelle milizie irachene sciite filo-iraniane che hanno contribuito alla sconfitta dello Stato islamico in Iraq. Le notizie in arrivo da Baghdad innervosiscono un Libano che teme uno scivolamento del dissenso nella violenza, e mostra l’inquietudine dell’Iran, protettore di Hezbollah nel piccolo paese Levantino e dei politici sciiti al governo in Iraq.
Un eventuale indebolimento degli alleati della Repubblica islamica non può che avere influsso sulla sua influenza nell’area, e mostra i limiti della sua politica regionale: «Teheran e i suoi proxy hanno fallito nel tradurre le vittorie militari e politiche in una visione socio-economica – ha scritto Foreign Policy – Detto più semplicemente: la narrazione della resistenza dell’Iran non ha saputo mettere cibo nei piatti».