Il Grande NavigatorA Hong Kong sparano, l’Italia dica no alla Via della strage

Pestaggi, arresti e proiettili nell’ex colonia britannica che chiede il rispetto dei diritti mentre il regime cinese celebra se stesso a Tien An Men. Forse è il caso di archiviare gli amorosi sensi con mister Ping

Mark RALSTON / AFP

È successo quello che doveva succedere. Dopo quattro mesi di pestaggi e di arresti, la polizia di Hong Kong ha sparato a bruciapelo su un diciottenne che manifestava per le libertà civili nell’ex colonia britannica, l’ultima isola semi libera dentro lo stato totalitario cinese. È successo nel giorno del settantesimo anniversario della rivoluzione culturale, mentre il super presidente Xi Jinping, vestito con l’abito rivoluzionario di Mao Tse Tung, assisteva alla parata militare assieme alla leadership del Partito schierata come da iconografia comunista dietro il gigantesco ritratto del Grande Timoniere che si affaccia su Piazza Tien An Men.

I simboli sono importanti, specie se sbandierati tutti insieme: il regime cinese c’è, non trema, si fonda sul mito purificatore della Rivoluzione, se c’è da sparare spara sui sudditi, mostra abiti e iconografia maoista e si autocelebra con una parata militare nella piazza dove nel giugno 1989 è stata compiuta la più grande strage di Stato dell’era contemporanea, con migliaia di studenti uccisi perché chiedevano aperture e rivendicavano diritti.

Contano anche le parole. Parlando delle proteste a Hong Kong, davanti alla Porta della Pace Celeste che fa da accesso alla Città Proibita, Xi ha detto che «nessuna forza farà vacillare il prestigio della nostra grande madrepatria, nessuna forza potrà ostacolare l’avanzata del popolo e della nazione cinese».

Il messaggio è arrivato chiaro a Hong Kong, ma nonostante gli spari non ha avuto alcun effetto sul dibattito politico italiano, impegnato a trovare i soldi per la finanziaria e totalmente disinteressato a ciò che succede oltre gli studi dei talk show televisivi

Il messaggio è arrivato chiaro a Hong Kong, ma nonostante gli spari non ha avuto alcun effetto sul dibattito politico italiano, impegnato a trovare i soldi per la finanziaria e totalmente disinteressato a ciò che succede oltre gli studi dei talk show televisivi.

Le pallottole di Hong Kong, la repressione cinese e l’invocazione maoista invece ci riguardano da vicino, non solo per le ovvie ragioni dell’internazionalizzazione del Made in Italy e altre banalità che si portano molto, ma perché siamo uno dei pochi paesi occidentali, addirittura il primo del G7, ad aver firmato il memorandum della Nuova Via della Seta, l’iniziativa strategica cinese per costruire una cintura di collegamento con l’Asia, l’Africa e l’Europa che faccia da strumento e infrastruttura per il nuovo espansionismo della Repubblica popolare.

L’Italia ci è cascata in pieno col precedente governo, tipo l’americano che crede di aver comprato la Fontana di Trevi da Totò, capitolando di fronte alle lusinghe cinesi e offrendo a Pechino indebitamento e infrastrutture strategiche in cambio di un grottesco carico di arance siciliane. La fazione cinese del precedente governo era quella cinquestellista, guidata allora da Michele Geraci e suggellata dall’indimenticabile «mister Ping» di Luigi Di Maio. Diventato ministro degli Esteri, Di Maio si è preso come capo di gabinetto lo stimato ambasciatore Ettore Sequi, di stanza a Pechino al momento dei suoi viaggi cinesi in economy class. Sequi è un fior di diplomatico, scuola Fulci, ma forse è arrivato il momento di smettere gli abiti diplomatici e di indossare quelli di navigator, anzi di Grande Navigator, per spiegare a Di Maio e a tutto il governo la natura del regime di “mister Ping” e per sostenere con forza che, da Hong Kong alle infrastrutture, l’Italia non si può arrendere alla Via della strage.

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