Ogni volta che sento i neofiti della democrazia urlare «al voto al voto», smascherare il complotto delle élite e denunciare il rovesciamento della volontà popolare ad opera del “deep state”, qualunque cosa voglia dire, mi viene in mente che il 9 agosto 1974 Richard Nixon si è dimesso da presidente degli Stati Uniti per evitare l’onta della rimozione e nonostante un anno e mezzo prima, nel novembre del 1972, fosse stato trionfalmente rieletto alla Casa Bianca vincendo in quarantanove Stati su cinquanta, ovvero con la quasi unanimità del Collegio elettorale.
I libri di storia non raccontano di alcuna ferita inflitta alla democrazia in quella occasione, nemmeno quelli che col tempo hanno rivalutato l’eredità politica e sociale della presidenza Nixon. Al contrario, descrivono la sua defenestrazione, compresa la grazia che gli ha concesso il successore Gerald Ford, come il caso di studio del funzionamento della democrazia americana.
La storia di Nixon eletto quasi all’unanimità e dimessosi per evitare l’impeachment rende grotteschi i commenti di chi adesso dice che mettere Donald Trump in stato di accusa sia una violazione della volontà popolare, non solo perché Trump ha preso tre milioni di voti meno di Hillary Clinton, ma perché i sistemi democratici sono e restano tali proprio perché dotati di pesi e contrappesi in grado di raddrizzare eventuali storture e di garanzie e limiti per contenere le ambizioni più sfrenate.
Trump non sta bene, non è lucido, non è in sé, come ha scritto l’ex consigliere del presidente George W. Bush, Peter Wehner
Se un politico è stato aiutato dai servizi segreti di un nemico strategico, si è furtivamente adoperato per evitare che si scoprisse e infine ha chiesto ad altri paesi stranieri, tra cui l’Ucraina, l’Italia, l’Australia e la Cina, di infangare gli avversari politici interni o di indagare su un fantasioso complotto globale contro se stesso, peraltro facendo leva sugli aiuti finanziari in corso di erogazione, siamo di fronte a enormità sufficienti a decidersi di fermarlo il prima possibile.
Il caso Trump è questo, ma anche molto altro. Trump non sta bene, non è lucido, non è in sé, come ha scritto l’ex consigliere del presidente George W. Bush, Peter Wehner. Non lo dicono soltanto i suoi avversari, lo raccontano quelli che hanno lavorato a fianco a fianco con lui alla Casa Bianca. Sono quasi sempre coloro che gli stanno intorno, tranne i parenti e i lestofanti, a dire che Trump «non è in grado di esercitare i poteri e di adempiere ai doveri della sua carica». Per questo caso specifico, testuale, c’è una sezione del venticinquesimo emendamento alla Costitzione americana a prevedere la rimozione del presidente, senza nemmeno passare dall’impeachment.
La surreale conferenza stampa di mercoledì con il presidente finlandese è stata la conferma dello squilibrio di Trump e non solo perché ha fatto diventare trend topic l’hashtag #TrumpMeltdown, il collasso di Trump, ma perché l’avvio formale dell’impeachment alla Camera non l’ha convinto a smettere di chiedere aiuti stranieri per infangare la famiglia del vicepresidente Biden. Anzi ha chiesto anche a Pechino. Mentre poco prima aveva suggerito di usare l’atomica contro gli uragani e di sparare alle gambe dei migranti per evitare che oltrepassassero il confine. Basta, please.
Lo stato di diritto e la volontà popolare non si rispettano consentendo a lui o a Salvini o a chiunque altro, di destra o di sinistra, di devastare il primo e di compiere qualsiasi scelleratezza in nome del popolo sovrano. La democrazia si difende difendendo la democrazia.