Li chiamavano «pisciafreddo». Erano quelli che per paura dei fascisti abbandonavano l’impegno politico per rifugiarsi nel cono d’ombra della vita privata. O i seguaci di Benedetto Croce, che si illudevano di poter addomesticare il nuovo regime. «Ogni tanto chiedevo notizie di vecchi amici, ex deputati, professionisti, giornalisti», ricorda Giorgio Amendola nelle sue memorie, «e ricevevo risposte amare e deludenti…Anch’io stavo affondando nelle sabbie mobili del compromesso quotidiano?». Quando Enzo Sereni, negli anni Trenta, ben prima delle leggi razziali, tenta di mettere in guardia gli ebrei del ghetto di Roma dalla minaccia dell’antisemitismo, lo trattano come un profeta di sventura: «Parlare del pericolo lo aumenta e basta», gli obiettano. Sono convinti che in Italia non succederà mai, e comunque temono che creando allarme «si faccia il gioco» dei nemici.
Riprendo questi aneddoti dal libro di Mirella Serri, Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini (Longanesi), che consiglio a tutti di leggere. È un libro tremendamente bello, e lo dico in senso letterale, perché fa tremare le vene e i polsi. Racconta di un gruppo di ventenni che ancor prima della marcia su Roma aveva aperto gli occhi sulla vera natura del movimento che stava per prendere il potere in Italia. E si batteva per aprirli a chi li teneva ostinatamente chiusi. I fratelli Sereni, i due Rosselli, il figlio del Giovanni Amendola bastonato a morte dai fascisti, Ada Ascarelli, Nadia Gallico, Velio Spano, Maurizio Valenzi. Erano socialisti, comunisti, liberali, sionisti. In genere, giovani borghesi dei quartieri alti (allora non si chiamavano Parioli) che frequentavano i migliori licei di Roma o di Napoli. Invece gli squadristi venivano dalle borgate: «Sporchi, malmessi, pidocchiosi – li descrive Serri – ma tutti con la camicia, considerata d’ordinanza, di color nero e nuova di zecca…Avevano uno spadino sottile o un più robusto pugnale nascosto sotto il giubbino». Molte cose, nel libro di Mirella, ci suonano familiari. Comprese le liti e le divisioni nello schieramento antifascista, con Togliatti che tuonava contro i «socialfascisti» e la «menzogna democratica».
Di sicuro c’è che, fascismo o non fascismo, un paese dove una sopravvissuta all’Olocausto deve vivere sotto protezione qualche problemino ce l’ha
Le analogie sono inquietanti. So che l’amico Emilio Gentile mi sgriderà, mi spiegherà per l’ennesima volta che il fascismo è unico e irripetibile, e che i populisti di oggi non hanno niente a che fare con le camicie nere di un secolo fa. Non discuto, avrà certamente ragione. Ma credo convenga anche lui che i «pisciafreddo» sono sempre tra noi, e sono la maggioranza, e che di «irriducibili» in giro se ne vedono pochi. Nemmeno le élite sono più quelle di un tempo. E che fine hanno fatto i licei che sfornavano i Rosselli e i Gobetti?
Di sicuro c’è che, fascismo o non fascismo, un paese dove una sopravvissuta all’Olocausto deve vivere sotto protezione qualche problemino ce l’ha. Checché ne dicano i nuovi «pisciafreddo», o meglio «tuittafreddo» (visto che siamo di fronte a uno squadrismo 2.0, più virtuale che corporale): tipo l’ineffabile sindaco di Verona, Federico Sboarina, che giura di non aver sentito il verso della scimmia contro Balotelli, o gli onesti anticasta che trovano da ridire sulla scorta a Liliana Segre e fanno notare che, in fondo, lei gli insulti non li ha ricevuti, perché non sta sui social. O i sofisti che ci esortano a non enfatizzare l’emergenza razzismo, altrimenti si regalano voti a Salvini e vedono nella commissione sull’odio online una minaccia alla libertà di espressione. O il giudice di Imperia che assolve il saluto romano. Che poi, se vogliamo dirla tutta, i «pisciafreddo» di allora almeno rischiavano il licenziamento, se non le manganellate, l’olio di ricino e il confino. Quelli di oggi, alla peggio perdono un appalto della regione o un contratto alla Rai (e da agosto in poi, nemmeno più quello).
La verità è che in Italia siamo diventati un po’ tutti ipovedenti. Non vediamo i pericoli che stiamo correndo, o facciamo finta di non vederli. Applichiamo il principio di precauzione in modo maniacale, e per lo più a sproposito, quando crediamo che sia in gioco la nostra salute. Diffidiamo stoltamente dei vaccini, bocciamo i termovalorizzatori per paura della diossina, usiamo il vivavoce per non tenere il cellulare vicino all’orecchio, compriamo solo merendine senza Ogm e senza olio di palma. In politica, invece, tendiamo a sottostimare i rischi. Forse anche perché, a differenza di un secolo fa, a essere bastonati, imprigionati e lasciati annegare non sono italiani di razza ariana. O almeno, per ora è così. Se «Lui» ci promette condoni e flat tax, che ci frega dei neri e degli ebrei?