Just do itI figli ci salvano, ma siamo troppo egoisti per metterli al mondo

Diciamoci la verità una volta per tutte: i responsabili della decrescita demografica nei Paesi industrializzati non sono guerre, carestie, pestilenze e crisi economiche. Siamo noi

Da qualche settimana mi svegliavo con l’emicrania. Mi sembrava che un pulcino, con regolari colpi di becco, cercasse di rompere dall’interno la mia scatola cranica come il guscio di un uovo. Avevo il cancro, era evidente, non c’erano altre possibilità, che mai poteva essere, ero morto. L’aveva avuto mio padre, l’aveva avuto mia madre, e ora toccava a me. Fu soltanto in quel momento che, a 36 anni, mi convinsi: sarei diventato papà.

Giusto la paura di sparire per sempre senza lasciare traccia del mio passaggio in questo universo mi aveva persuaso a concepire un figlio. Vivrò nelle sue espressioni, scintille di quel che ero baleneranno nei suoi pensieri, volendo essere ottimisti parlerà alle mie foto profilo sul tablet. Non era altruismo: mi sentivo scivolare in un abisso senza ritorno e mi aggrappavo al futuro con gli unici rampini di cui ci ha dotato la biologia. Il cancro non l’avevo (almeno così pare), però ho dovuto ammetterlo: sono irrimediabilmente egoista. «I dati suggeriscono che le persone vogliono realizzare loro stesse prima di fare dei bambini» dice Alison Gemmill, demografa della Johns Hopkins University.

Se in Italia i nuovi nati sono calati del 24% negli ultimi dieci anni, pure negli Stati Uniti il tasso di fecondità è sceso inesorabilmente dalla Grande Recessione del 2008 fino a oggi. Con i livelli del 2007, in questi anni sarebbero nati 5,7 milioni di americani in più. Forse l’intera civiltà occidentale ha scelto il seppuku demografico.

Certo, i bambini costano più di una villetta al mare. Come oggi gli sciroccati scovano ufo nei geroglifici egizi, altri domani indicheranno i film di Checco Zalone e, nello sconcerto generale, assicureranno: vedete?, il posto fisso esisteva davvero! E poi c’è il cambiamento climatico, isole di plastica grandi quanto gli States galleggiano nell’Oceano Pacifico, decine di città costiere in giro per la Terra sono candidate al destino di Atlantide. Non le premesse migliori per mettere al mondo una creatura. Eppure le premesse sono state oscene fin dai tempi delle caverne. I decenni che stiamo vivendo sono i più pacifici in assoluto: si calcola che il 20% delle morti preistoriche avvenisse in battaglia.

Secondo alcuni la speranza di vita nell’antica Roma era di 40 anni, secondo altri di 27. La nostra specie è però sopravvissuta a tutto questo e oggi siamo arrivati a 7 miliardi di cristi: evidentemente ce ne siamo bellamente fottuti delle premesse per interi millenni

Secondo alcuni la speranza di vita nell’antica Roma era di 40 anni, secondo altri di 27. La nostra specie è però sopravvissuta a tutto questo e oggi siamo arrivati a 7 miliardi di cristi: evidentemente ce ne siamo bellamente fottuti delle premesse per interi millenni. Fare un figlio nel 2019, in Italia, è sulla carta più sensato che nella stragrande maggioranza degli altri punti spaziotemporali dell’universo. Ma più siamo istruiti, quindi potenzialmente avvantaggiati nelle prospettive di carriera, meno figli facciamo. Insomma: o iper-responsabili, o iper-egoisti. Tertium non datur.

Spesso il senso di responsabilità è a conti fatti una scusa. Lo dicono le nonne, lo dicono le mamme, lo dice la storiografia: se aspetti il momento perfetto, non ti deciderai mai. Perché i momenti perfetti non esistono. La questione va riformulata così: dell’utilità e del danno di un figlio per la vita. Dove vita sta per realizzazione personale. Cambiare lavoro, cambiare casa, cambiare automobile. Diventare padre rientra nello stesso ordine di problemi. Il figlio è un riquadro nel file Excel delle nostre ambizioni.

A quanti weekend dovrò rinunciare, a quante vacanze, a quante paia di scarpe, a quante ore di sonno, a quante abat-jour, a quali esperienze all’estero, a quanti pensieri dedicati a me stesso? Di contro, quanto il mestiere di genitore mi salverà da una vecchiaia disperata, quanto un figlio potrà aiutarmi nel declino, quanto le sue telefonate riscatteranno la noia della pensione, quanto le sue speranze daranno senso a un futuro nel quale io non sarò più presente? Mi fanno più tristezza i single cinquantenni che ci provano con le bariste? Le vecchie coppie escluse dal giro di amici perché senza figli e che quindi si trascinano da un tavolo di burraco all’altro? O quelle che devono armeggiare con passeggini e pentolini e faccette nel disperato tentativo di placare le urla di un poppante indemoniato sull’aeroplano?

Poi mi dico che un figlio andrebbe fatto d’impulso. Questi calcoli svuotano la paternità della sua gioia istintiva: un figlio ti deve scappare, come una risata per una barzelletta. Se devi spiegarla, tanto vale tacere

Poi mi dico che un figlio andrebbe fatto d’impulso. Questi calcoli svuotano la paternità della sua gioia istintiva: un figlio ti deve scappare, come una risata per una barzelletta. Se devi spiegarla, tanto vale tacere. Ma allora ribatto: no, vecchio mio, stai giusto accampando l’ennesima scusa. Se per te il figlio è solo una copia miniaturizzata di te stesso, a quel punto fatti un selfie – che tra l’altro camperà nell’etere molto più a lungo di quanto un figlio possa campare nell’atmosfera terrestre. Infatti è questo che facciamo: ci riproduciamo per partenogenesi di pixel.

I selfie non ci commuovono quando tentano di gattonare, non perdono il loro primo dentino, però sono tali e quali a papà. L’autoscatto è il simbolo di una facile autoaffermazione: anche chi non si è mai fotografato con il polso rigirato verso il proprio faccione è in qualche modo animato dalla stessa fregola generazionale. Chi ha tempo e voglia di sfornare un bambino quando è impegnato nell’universale corsa alla popolarità? – e cioè nel tentativo di imprimere la propria immagine e il proprio nome nella mente di più persone possibile. Questo oggi intendiamo per riproduzione. E se concepisci un figlio convinto di esserti fatto un selfie col pannolino, come lo educherai?

Il labirinto dell’egocentrismo pare senza via uscita. Tuttavia soltanto i figli, ascesi buddista a misura di borghese, nonostante i turni nella notte e le rinunce a weekend e cappotti, ti liberano dalla tirannia del tuo padrone supremo: te stesso. Fuori un tiranno, dentro un altro, più piccolo. I primi tempi mugugnerà, ma sarà meno difficile capire lui che capirti da solo. La morte non sarà più la tua preoccupazione principale, che meraviglia. Non tradurrai più automaticamente l’emicrania in cancro ma in e-ora-come-lo-porto-alla-festa-di-classe?

Antidoto all’ipocondria, rivoluzione copernicana nella tua trascurabile galassia, solo un figlio ti salva davvero dal monoteismo. Forse bisognerebbe semplicemente ascoltare la mamma e la Nike: just do it.

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