Sovranismo baronaleLa verità, vi prego, sui finanziamenti europei alla ricerca

Uno stravagante articolo del Corriere della Sera, scritto da un professore di letteratura greca, critica i fondi milionari Ue sulla ricerca perché permettono a «esordienti e ai cani sciolti», di ottenere una cattedra. Un po’ di numeri per capire che questo non è il problema dell'Università italiana

MIGUEL MEDINA / AFP

Un professore ordinario di letteratura greca critica i fondi Ue dedicati all’eccellenza scientifica perché secondo lui permettono a «esordienti e ai cani sciolti», di ottenere una cattedra all’Università. Sembra una battuta lanciata per noia davanti a una macchinetta del caffé e invece è diventata una polemica social.

Su Twitter e Facebook le bolle universitarie, e non, hanno attaccato un articolo pubblicato sul Corriere della Sera in cui Walter Lapini si scaglia contro «l’Europa del merito, cioè del ritornante darwinismo» e definisce l’inglese «la vaselina dei popoli». Basterebbero questi estratti per capire il tono e lasciar perdere ma la lunga serie di luoghi comuni sui finanziamenti europei Erc tra cui: «Si cala dall’alto un grosso pezzo di carne e il più forte o più scaltro lo azzanna», pubblicate sul più importante quotidiano italiano meritano almeno di fare chiarezza. Basterebbe mettere in fila un po’ di numeri per capire che i fondi Ue e in particolare gli Erc non sono il vero problema dell’università italiana.

Prima bufala: la tesi principale dell’articolo è che l’Ue assegna borse milionarie a singoli ricercatori invece di finanziare tanti piccole ricerche di centinaia di professori. «Gli Erc e i dispositivi dello stesso tipo come le Marie Curie, le quote premiali, le supererogazioni ai cosiddetti dipartimenti di eccellenza vanno di moda in quanto interpretano lo spirito dei tempi, in cui si disprezza il magro ma regolare provento e ci si esalta per l’azzardo, il colpo grosso, il tutto o niente». Scritta così, sembrerebbe una richiesta giusta. Perché l’Unione europea non dà vagonate di milioni a tutti i professori italiani? Magari anche a quelli che non hanno mai pubblicato articoli di ricerca rilevanti nella loro carriera? Forse perché la politica dell’Ue nell’ambito di ricerca è complementare ai Paesi membri. Complementare. Tradotto: sono gli Stati a dover investire per primi. Non si può pretendere che il Consiglio Europeo della Ricerca con un budget di 13 miliardi in sette anni per 28 Stati possa finanziare tutta la ricerca degli oltre 3300 atenei europei.

Anche perché la missione degli Erc è «incoraggiare la ricerca della massima qualità in Europa attraverso finanziamenti competitivi e sostenere la ricerca di frontiera promossa dai ricercatori in tutti i campi sulla base dell’eccellenza scientifica». Massima qualità, finanziamenti competitivi, ricerca di frontiera. È ciò che ci si aspetta da un ente complementare: esaltare l’eccellenza per realizzare nuove e imprevedibili scoperte scientifiche e tecnologiche mentre allo stesso tempo altri fondi statali garantiscono finanziamenti per tutti a un primo livello. Il problema però è l’Italia. Secondo l’Osservatorio sui conti pubblici italiani della Cattolica il nostro Paese spende per l’università statale 5,5 miliardi di euro: lo 0.3% del prodotto interno lordo. Ripetiamo: lo 0,3%, mentre la media europea è dello 0,7%.

L’altro punto cardine dell’articolo è la critica al sistema di valutazione degli Erc. Secondo l’autore è sbagliato perché permette a giovani ricercatori di vincere la borsa fino a 2,5 milioni di euro per un periodo di 5 anni pur avendo poca esperienza e usando parole di moda nel progetto di ricerca «E così il giovanotto intraprendente e opportunamente addestrato che ha saputo esprimere in un brillante curriculese una serie di buoni propositi e di parole in voga tipo «gender» o «sostenibilità», vola senza colpo ferire su una cattedra di fatto comprata». Ora, da un professore ordinario ci si aspetta che conosca almeno i requisiti per accedere alla borsa. Lo aiutiamo noi.

Ci sono almeno di tre tipi: starting, consolidator e advanced. Nel primo si possono avere dai due ai sette anni di esperienza post dottorato ed è un periodo breve. Ma ricordiamo che questa borsa serve per stimolare la ricerca di frontiera e quindi i revisori internazionali (non baroni di ateneo che coptano pupilli servizievoli) selezionati in base alla loro carriera valutano le proposte solo sulla base dell’eccellenza come unico criterio. Eccellenza, non anzianità di servizio. Ma l’autore dell’articolo non fa distinzione con i le borse consolidator per cui bisogna avere dai 7 ai 12 anni di esperienza dopo il dottorato e l’advanced riservata solo a ricercatori affermati con una storia riconosciuta di risultati ottenuti negli anni.

Ma andiamo a vedere i numeri. A dicembre il Consiglio Europeo della Ricerca ha assegnato 600 milioni a 301 ricercatori europei con almeno sette anni di esperienza dopo il dottorato. I progetti presentati sono di alto livello: dalla ricerca per il cibo elettronico commestibile che controlla la salute al modo in cui il cambiamento climatico potrà modificare la superficie terrestre. Quanti italiani hanno vinto? 23, ma solo sette realizzeranno il loro progetto in una università italiana. Sette: il 2,3% del totale. Segno che quando possono scegliere, i ricercatori italiano preferiscono occupare cattedre all’estero lasciando le ragnatele negli atenei italiani. Gli altri preferiscono andare in Germania (52 progetti finanziati), Regno Unito (50), Francia (43) e Paesi Bassi (32).

Rimane però il problema di quei magnifici sette che hanno malauguratamente scelto di fare ricerca nel nostro Paese. Secondo il professore autore dell’articolo chi vince «vuole in cambio il posto fisso, magari il più alto, una bella cadrega da ordinario. Piomba in un dipartimento e scardina la programmazione, salta la fila, taglia la strada ai tanti che attendevano laboriosamente il loro turno e che ora devono farsi da parte davanti all’inesorabile avanzata del Milione». E allora andiamolo a vedere questo sconquasso.

Dal 2007 al 2019 sono state assegnate 558 borse di ricerca, di cui 50 nei settori Cultural production e Study of the Human Past Social Science & Humanities, su cui l’autore dell’articolo del CorSera lamenta un impatto devastante per le sorti della ricerca italiana. Come segnala su Twitter Alessandro Giudici, Strategy Senior Lecturer della Cass Business school, 20 di queste borse sono state assegnate a ricercatori con meno di sette anni di esperienza post dottorato e 10 a coloro che ne avevano meno di 12. Tradotto: 30 fondi in 12 anni. Davvero è così dirompente l’arrivo di 2,5 ricercatori “milionari” all’anno se in Italia ci sono 91 atenei?. Forse un po’ poco per scrivere un articolo così generico e rancoroso. Anche perché a forza di semplificare e generalizzare si potrebbe parlare del malcostume in molte università italiane in cui i giovani e dottorandi vengono cooptati dai baroni in base alla simpatia. Oppure si potrebbero citare i molti casi giudiziari che hanno portato alla luce esempi di nepotismo. Ma si rischierebbe di fare di tutta un’erba un fascio. E quelli sì, sono discorsi da bar.

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