Paolo Sarpi deserta: Milano abbandona China Town per timore del coronavirus. Persino Enrico Mentana ha ritenuto opportuno postare sul suo profilo instagram due immagini di una cena in un ristorante cinese milanese, il Bon Wei, sottolineando quanto l’allontanamento in massa da questa cucina sia un modo davvero stupido di affrontare l’emergenza coronavirus.
Ma il direttore del telegiornale di La7 non è stato l’unico a sentire l’esigenza di andare in soccorso di un popolo ingiustamente bollato come untore, a causa di una campagna diffamatoria che ha colpito prevalentemente i ristoratori cinesi, abbandonati dai clienti proprio nei giorni del festeggiamento del loro capodanno per una immotivata sindrome dell’allontanamento.
Perché la China town milanese per eccellenza, identificata con via Paolo Sarpi e zone limitrofe, si è svuotata di persone, allontanatesi dal luogo del presunto ‘contagio’ da un virus che ha fatto – in Italia – più danni in rete che in realtà. E proprio quando era necessario mostrare la propria sensibilità a una popolazione colpita da un’epidemia, ci si è allontanati per paura, per malcelato razzismo, per ignoranza.
Noi invece in Sarpi vogliamo tornarci, proprio per dimostrare quanto questo pezzo della città, così cambiato nel corso degli ultimi 20 anni, sia in effetti un luogo che ormai fa parte della morfologia cittadina e ne è parte integrante, anche dal punto di vista enogastronomico. Perché qui convivono in un susseguirsi di morsi e sorsi l’Italia e la Cina del gusto, per una tavola condivisa e universale.
Ci siamo fatti accompagnare per la China town milanese da un risoluto gruppo di sostenitori e abbiamo scoperto i luoghi più consigliati per un tour che metta insieme, a tavola, Italia e Cina.
Dopo il suo sfogo amareggiato su una testata di settore Aldo Palaoro sceglie Hua Cheng per la sua cena di vicinanza, la trattoria cinese per eccellenza, dove un pasto costa meno di un ticket restaurant e la cucina è senza fronzoli ma con tanta sostanza. «A nulla è servito l’appello di Comune e Camera di Commercio con l’Assessore Tajani fotografata mentre si gustava un fumante Ramen in compagnia di Francesco Wu, in rappresentanza dell’intera comunità cinese di Milano. È stata una delusione che anche Milano, di cui siamo fieri e che amiamo come città nobile, dal cuore in mano, contenga al suo interno i germi di un atteggiamento di chiusura che diventano, questi sì, virus della paura, dell’ignoranza. Nel nostro piccolo, continueremo a denunciare questi comportamenti, continueremo a invitare i nostri lettori a cenare nei ristoranti asiatici, come prima, più di prima, almeno nella fase di picco della paura, come abbiamo fatto mia moglie e io e come, senza alcuna sorpresa, ma, anzi, con la bella consapevolezza che chi si somiglia si piglia, hanno fatto altre coppie di amici incontrate dopo cena in Paolo Sarpi e che erano appena uscite dal loro ristorante preferito, raccontandoci di aver dovuto consolare la proprietaria che li aveva accolti con gli occhi umidi, ringraziandoli per aver scelto di cenare da loro nonostante la situazione».
Lo ha fatto anche Francesca Noè, blogger con Milano nel cuore di AMilanopuoi, che ha lanciato un hashtag e ha fatto la differenza, portando #iovadoalcinese a diventare uno dei trend degli ultimi giorni e finendo con il suo appello sul Corriere della Sera, offrendo a The Fork, sito di prenotazione di ristoranti, l’occasione di lanciare a sua volta l’appello a non abbandonare la cucina cinese con l’imperativo ‘Sconfiggi i pregiudizi’.
«Quando ho iniziato a leggere di China Town deserta ero a Cuba, non ci volevo credere. Tornata, sono andata dai miei tanti amici ristoratori della zona e ho visto coi miei occhi che stava succedendo qualcosa di davvero grave. Dopo essermi assicurata che il virus non si poteva trasmettere andando a cena, ho lanciato l’hashtag sui miei social network dove racconto la città. È diventato virale dopo poco e molti mi hanno seguita nell’idea di andare a dare supporto ai negozianti della zona. È un piccolo gesto ma sono sicura che ha dato più fiducia alle persone che di me si fidano e che magari erano timorose, per superare la paura e tornare in Sarpi». Per lei la scelta qui cade su Hong Ni, in via Rosmini, una trattoria che definisce ‘hard core’, per provare gli autentici sapori cinesi e mangiare i suoi spiedini preferiti.
Anche Sara Porro, food guide e scrittrice, ha voluto fare qualcosa di concreto e ha proposto una cena diffusa a tutti gli amici sui social network, per riempire di clienti il suo ristorante preferito.
«Ho organizzato per ieri sera una cena da Jin Yong, aperta a tutti, con l’idea di dare un segnale di vicinanza morale ma soprattutto materiale alla comunità cinese. Mi sono incaricata io di un menu per tutti, con qualche piatto che magari la maggior parte delle persone non si azzarderebbe a ordinare. Ho scelto Jin Yong perché rimane il mio preferito da alcuni anni, è gestito con grande mestiere da una donna che si chiama Camilla (nome italianizzato, ma lei si presenta così). Mi ha preso in simpatia anni fa dicendomi che “le piace come ordino”, che vuol dire, in genere, per tutti da condividere, alla cinese. E mi faccio consigliare sul pesce fresco in vetrina e su preparazioni non comuni, come le enormi teste di pesci oceanici cotte in salsa di soia, zenzero e cipollotti o il delizioso bambù affumicato o i cuori di loto con così tanto aglio da far inumidire gli occhi. Amo questo locale perché, come accade spesso nei ristoranti cinesi, è incredibilmente accogliente e accomodante. Ci sono andata ai primi appuntamenti e agli ultimi, da sola o in trenta, con mia figlia neonata e altri dieci bambini che gridavano, coi cani. Quando ho confermato la prenotazione, senza dire niente dell’iniziativa, solo che andavo con amici, Camilla mi ha ringraziato e mi ha detto che stavano facendo molta fatica. Allora le ho detto dell’occasione della cena, che mi sono sentita sempre accolta come un’amica e che in questa circostanza ci tenevo a dimostrare che lo stesso valeva per me. È una cosa che posso fare nel mio piccolo, ma spero sia un segnale».
E poi ci sono le persone che hanno scelto questa zona per viverla ogni giorno, e ci svelano le proprie preferenze.
Giacomo Addario, che ha vissuto in Cina per più di un anno, torna qui per riscoprire i sapori di quel periodo: «Chinatown per me è simbolo di libertà che si associa a un piacevole ricordo. Entrare in una qualsiasi insegna di Paolo Sarpi e perdersi tra profumi e aromi, ma anche curiosi packaging e bambini sorridenti che mi ricordano il periodo trascorso tra Pechino e Shanghai è uno delle più belle esperienze che Milano nel 2020 è capace di regalarmi. Quando voglio riscoprire quel periodo vado da Tang gourmet per i ravioli ripieni di brodo di maiale, si chiamano xiaolongbao e sono davvero come quelli che mangiavo in Cina. Per le ‘pentole di fuoco’, tagliatelle e ‘scodelle’, invece, scelgo Wang jiao».
Per il team della Factory di Sonia Peronaci, fondatrice di GialloZafferano e oggi imprenditrice digitale, che qui ha la sua sede e tiene corsi, incontri ed eventi a tema cibo, l’accoglienza di Paolo Sarpi è stata immediata. Il gruppo, pur preparando in proprio i pasti, fa merende ‘cinesi’ con la bevanda più alla moda: i bicchieroni di bubble tea di Chateau Dufan sono spesso sui tavoli delle riunioni di questo spazio così creativo e vivace.
«Sono una cuoca casalinga abbastanza pretenziosa e solo quando ho scoperto la macelleria Sirtori ho capito che avrei potuto cucinare anche a Milano quello che in Provincia trovavo facilmente» a suggerirci questa macelleria storica che ha resistito all’estensione dei negozi cinesi, ed è un effettivo punto di riferimento non solo per la zona, è Cristina Scateni, umbra, co-founder di un’agenzia di comunicazione milanese, che qui ha trovato gli spunti e i tagli giusti anche per le ricette del suo libro sulla cottura slow, edito da Ponte alle Grazie. Cristina ha scelto di vivere e di aprire la sua agenzia Freel proprio in questa zona in cui la convivenza è norma: «Proprio la macelleria Sirtori fornisce la carne a Ravioleria Sarpi, vero punto di riferimento dello street food di Sarpi, quindi non ha solo resistito, ma collabora attivamente a progetti che uniscono le due culture».
Anche Marta Ascani, un’altra libera professionista e milanese acquisita, ha trovato qui la sua dimensione: «Le Cantine Isola mi hanno salvato la vita: appena arrivata a Milano, da grande, non conoscevo nessuno e non sapevo nulla della città. Sono venuta a vivere in Paolo Sarpi perché mi sono innamorata di questo quartiere 15 anni fa, e ho iniziato a frequentare questo posto sempre pieno e brulicante di vita: il clima informale mi ha permesso di conoscere tantissime persone, che poi sono diventati nel tempo i miei riferimenti milanesi. La ravioleria per i ravioli ma anche per i bao è un altro riferimento certo, proprio di fronte alle cantine: ed è perfetto fare l’aperitivo, con un calice delle Cantine, mangiando cibo cinese buono, sano e a poco prezzo». E noi la seguiamo, perché l’atmosfera è di quelle che invita a ritornare.
Se, nonostante le rassicurazioni, i dubbi persistono, questo è un vademecum dell’Istituto superiore di sanità che vi consigliamo di leggere prima di andare a passeggio in Paolo Sarpi. Dopo esservi lavati bene le mani.