Nel giorno del temuto “grande strappo” di Matteo Renzi, chiunque, non solo Michele Serra potrebbe giudicare la disputa sulle intercettazioni una materia da legulei. Ma sbaglierebbe a sottovalutare i riflessi della questione sull’incerta navigazione del Conte bis e di qualunque eventuale futuro governo. La materia richiede sapienza giuridica e tecnica. Da sempre è oggetto di furiose contese nelle aule di tribunale o parlamentari. E c’è anche un indotto economico non indifferente. Prende la forma di generosi appalti che lo Stato tramite la magistratura stipula con contractor privati detentori delle sofisticate tecnologie necessarie per l’abbondante materiale messo a disposizione della stampa più introdotta che ne fa ampio smercio. Non c’è processo di rilievo che non si basi sulle intercettazioni, oggi corroborate anche da una avanzata tecnologia come i Trojan, veri e propri virus che risucchiano il contenuto di ogni apparecchiatura elettronica e inseguono ler loro prede per 24 ore, senza scampo.
Su quest’ultima materia, il governo Gentiloni e il suo ministro Andrea Orlando avevano varato una nuova normativa che restringeva le possibilità di pubblicazione delle intercettazioni “irrilevanti” (segnatevi questo termine, lo ritroveremo), in sostanza quelle che mettevano in piazza i vizi privati della nomenklatura indagata. Tuttavia ai magistrati non era piaciuta l’idea di affidare ai corpi investigativi la scelta delle intercettazioni rilevanti da segnalare al Pubblico ministero, distruggendo le altre. Qualche anima maliziosa, ripensando a vicende come Consip (la centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana) dove alti ufficiali dei Carabinieri sono imputati di favoreggiamento per avere spifferato l’esistenza di intercettazioni a qualche illustre indagato, aveva ritenuto inopportuna una tale ampia delega. Gli ultimi due governi hanno modificato le disposizioni, riportando alle procure l’ultima parola sulla scelta del materiale da utilizzare.
Dopo tre anni, la nuova legge non è ancora in vigore a causa di delicati problemi organizzativi interni delle procure e soprattutto della necessità di non accavallare le nuove norme sui vecchi procedimenti, di disciplinare gli appalti delle operazioni eliminando pericolose zone d’ombra che avevano favorito società opache e addirittura la distribuzione di intercettazioni non consentite. L’ultima proroga scade il prossimo 28 febbraio, dopo di che si dovrebbe procedere con la nuova disciplina. Ma secondo il quotidiano Il Dubbio ci sono le forti perplessità che le più importanti procure avrebbero manifestato al ministro Alfonso Bonafede.
Su questo incerto panorama si è manifestato a gennaio un convitato di pietra: le Sezioni Unite della Cassazione, con una sentenza, hanno scosso dalle fondamenta uno dei pilastri delle principali indagini giudiziarie, ovvero le intercettazioni “a strascico”. Spesso, nel corso delle intercettazioni disposte per alcuni reati, si manifestano prove ed elementi che portano all’accertamento di altri. Una norma del codice vieta espressamente che si faccia uso indiscriminato delle intercettazioni al di fuori del procedimento in cui sono state disposte. Ma finora questa norma non è mai stato considerato un ostacolo per perseguire nella stessa indagine nuovi reati.
Sono maturate cosi alcune delle più importanti e storiche indagini: da Mafia capitale, a Consip, alle indagini sul padre di Renzi fino allo scandalo del Consiglio superiore della magistratura. Casi in cui si indagava su altro, e nelle cui reti sono rimasti impigliati pesci anche più grossi di quelli in origine cercati. L’importante non è dove ma indagare, perché qualcosa comunque si pesca nel paese già culla del diritto.
Le Sezioni Unite hanno detto stop. O meglio, si potrà continuare come prima solo se ci sarà una stretta derivazione tra i reati originari che hanno ottenuto il via libera del giudice e quelli nuovi. Per esempio, se sono stati commessi dalla stessa persona, o in occasione degli altri crimini, oppure per nasconderli, nell’ambito dello stesso piano criminoso, e sempre che si tratti di gravi reati per cui è obbligatorio l’arresto in flagranza (con pena minima non inferiore a cinque anni e massima a venti anni). Con questa interpretazione delle norme sarebbero a rischio processi come Consip e Csm e numerosi altri tutti nati allo stesso modo, cercando altro o semplicemente sperando di trovare altro.
Ecco perché in Senato, a pochi giorni dall’entrata in vigore della nuova legge, Pietro Grasso di Liberi e Uguali ha proposto un emendamento con l’appoggio della maggioranza per riportare le lancette al passato. Si possono utilizzare le nuove intercettazioni purché siano “indispensabili” ad accertare ogni tipo di reato per cui può essere autorizzata un’intercettazione, e non solo quelli più gravi e connessi ai reati per cui si indaga. Facile intuire che dietro l’ex procuratore antimafia vi siano i settori della magistratura più preoccupati delle ricadute sulle loro indagini e assai meno delle garanzie dei cittadini.
Ciò che invece non si comprende è la reazione di Italia Viva che dopo essere insorta contro Grasso per mezzo del deputato Davide Faraone si è poi incomprensibilmente accontentata di un insulso e ininfluente aggettivo posto prima di indispensabili. Le nuove intercettazioni sono inutilizzabili salvo che siano «rilevanti e indispensabili» per l’accertamento dei reati per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e per i reati previsti dall’articolo 266 comma 1 del codice di procedura penale. Esattamente tutto ciò che oggi la sentenza delle Sezioni Unite vieta.
Basta eliminare ogni riferimento alla necessità che i reati siano connessi e aggiungere l’elenco generale previsto dall’articolo 266, invece del vecchio limite dei reati di obbligatorio arresto in flagranza di cui al 270 del codice di procedura penale. L’aggiunta di un paio di aggettivi non cambia una virgola del vecchio scenario che si va a riallestire: ma se le scelte suicide di Italia Viva sono incomprensibili e senza logica (al contrario di quelle lucidissime del Partito democratico, LeU e Movimento Cinque Stelle) ciò deve preoccupare i suoi parlamentari e gli elettori che seguono con simpatia il tentativo di Renzi.
Ciò che deve allarmare il Paese è invece l’inedita invasione di campo della politica nella giurisdizione. Sino a oggi si lamentavano le entrate a gamba tesa della magistratura nelle scelte di governo, oggi è il Parlamento che si avventura nel campo non suo dell’interpretazione delle leggi per opporre a una versione conforme alla Costituzione di una norma gravemente invasiva delle libertà personali, una sua personale quanto illegittima interpretazione.
L’unico precedente paragonabile riguarda il decreto Martelli del 1991, varato ad horas per annullare gli effetti di una sentenza della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale che aveva disposto la scarcerazione degli imputati del maxi processo di Palermo, subito riarrestati grazie a una legge che ne interpretava un’altra malamente tradotta dagli ermellini (secondo il governo). Chi parla di materia da legulei sbaglia di grosso, chi ieri urlava contro la politica che aggrediva i magistrati e oggi non vede l’assalto intollerante verso le giurisdizioni superiori e gli organi di garanzia porterà la responsabilità del peggio che si prepara.