Un sistema d’accoglienza nelle mani di pochi, grandi gestori, che predilige i centri a grande capienza rispetto a una accoglienza di qualità, diffusa sul territorio. È questo il quadro tracciato dalla terza parte del rapporto di ActionAid e Openpolis, pubblicato ieri, che analizza gli effetti dei decreti sicurezza sullo stato di salute del sistema d’accoglienza in Italia. Effetti che, paradossalmente, sembrerebbero andare nella direzione contraria rispetto a quella rivendicata dall’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che tante volte si è scagliato contro il cosiddetto “business dell’accoglienza”.
Sotto la lente di ingrandimento di ActionAid e Openpolis, tra le altre cose, le conseguenze del capitolato di gara di appalto seguito al primo decreto sicurezza, che ha di fatto eliminato i servizi volti all’integrazione dei richiedenti asilo, prevedendo un taglio considerevole della spesa per i centri di accoglienza: da 35 euro al giorno a migrante accolto si è passati a 19-26 euro al giorno. Un modello che, più che tagliare il “business” e gli sprechi, ha finito per privilegiare i grandi centri e i grandi gestori: «Solo nei grandi centri, e soprattutto nei grandi centri in cui la struttura è di proprietà statale e quindi non c’è né una responsabilità né un investimento economico da parte dei gestori, è possibile partecipare alle gare senza grossi rischi», spiega infatti sul sito di Openpolis Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. «Inoltre, il grande centro consente economie di scala che la piccola struttura non consente».
In altre parole, è questa «la combinazione migliore, se non l’unica disponibile» per «ridurre l’impatto del taglio dei finanziamenti». Non è un caso che, con l’approvazione del decreto, molti gestori più piccoli, spesso attivi nell’accoglienza diffusa, abbiano disertato i bandi di gara, perché hanno ritenuto l’intero sistema non sostenibile e perché le nuove condizioni rendevano impossibile garantire le prestazioni richieste. Del resto, già nel 2017 la Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza del Ministero dell’Interno definiva i grandi centri di accoglienza «luoghi difficili da gestire e da vivere», e sottolineava il «convincimento che i grandi numeri producano effetti negativi oltre che nell’impatto con le collettività locali anche sull’efficienza dei servizi forniti ai migranti e, nello stesso tempo, per il connesso, rilevante onere finanziario siano fonte di attrazione per gli interessi criminali». La relazione del 2018, poi, ammetteva che «al crescere della dimensione» del centro, «aumenta la frequenza di criticità». Al contrario, al modello di accoglienza diffusa viene generalmente riconosciuta una maggiore efficacia nell’avviare i migranti verso un percorso di autonomia e integrazione e un impatto minore sul territorio.
Non solo: il nuovo modello rischia di favorire gli enti profit. «Anche se i margini di guadagno sono irrisori», spiega Schiavone, «l’ente profit, in alcune circostanze, può essere comunque interessato. Perché abbassando al massimo i costi e quindi fornendo un servizio pessimo può calcolare un utile anche piccolissimo ma che risulta poi significativo tenuto conto del numero elevato di ospiti».
Proprio nel tentativo di mettere una pezza alla crescente tendenza a disertare i bandi, la titolare del Viminale Luciana Lamorgese ha di recente inviato ai prefetti una circolare che apre alla possibilità di prevedere un aumento del 10 per cento dei rimborsi alle strutture di accoglienza per ogni migrante ospitato. Un aumento limitato, che lascia aperto il problema della qualità dei servizi offerti. «La mancata presentazione di offerte a un bando di gara è una situazione talmente limite che legittima il ricorso alla procedura negoziata senza bando, istituto cui è possibile ricorrere solo nei casi tassativi previsti dalla norma», si legge peraltro nel documento. Ma tra le modifiche ai decreti sicurezza che il Viminale starebbe prendendo in considerazione in queste ore, non ci sarebbe un ritorno all’ex sistema Sprar, di accoglienza diffusa sul territorio.
Secondo il rapporto, i decreti Salvini hanno sostanzialmente annullato la tendenza virtuosa, registrata tra il 2017 e il 2018, a privilegiare quest’ultimo approccio, rispetto alla logica “emergenziale” rappresentata dai centri di accoglienza straordinaria (Cas). Tale sistema, secondo ActionAid e Openpolis, «ha portato con sé le criticità da più parti denunciate, legate all’opacità nella gestione degli appalti, alla scarsità dei controlli, alla mancata erogazione dei servizi dovuti, sino ai casi più estremi di illegalità e complicità di alcuni gestori dei centri con la criminalità organizzata». Criticità amplificate dagli alti numeri di ospiti per struttura, e dal fatto che molti gestori hanno vocazione commerciale e sono privi di esperienza nel settore dell’accoglienza.
Emblematici i casi di Milano e di Roma. Nel capoluogo lombardo, dove già negli anni precedenti erano prevalenti grandi centri e grandi gestori, i nuovi bandi impostati dalla prefettura a partire dal febbraio 2019 hanno contribuito a rafforzare questa situazione. Il 64% dei posti offerti riguardano infatti centri di grandi dimensioni. E non tutti quelli previsti nell’accoglienza diffusa (750) e nei Cas fino a 50 posti (500) sono stati effettivamente assegnati: per questo, la prefettura ha dovuto proporre due nuovi bandi. Delle 31 realtà che nel 2018 gestivano strutture a Milano, 11 non hanno partecipato alle gare del 2019: si tratta di gestori che hanno tradizionalmente privilegiato l’accoglienza diffusa, e con volumi economici piuttosto esigui.
Ancora più significativo il caso di Roma, dove la quota di centri con una capienza superiore a 100 posti è aumentata del 37% nel giro di pochi mesi: oggi, l’83,5% dei posti in accoglienza si trova in grandi centri. Non solo: se a dicembre 2018 i gestori dell’accoglienza erano 17, a luglio 2019 ne sono rimasti 10, in gran parte di grandi dimensioni. Una situazione che tende a favorire concentrazioni monopolistiche o oligopolistiche: il 63% di tutti i posti in accoglienza nella Capitale è gestito da Medihospes, già Senis Hospes, tra i maggiori operatori del settore a livello nazionale. Il gruppo, il cui fatturato – secondo il rapporto – si è quasi triplicato negli ultimi anni, ha ulteriormente consolidato la sua posizione proprio nel 2019. E «affidare 2/3 dell’accoglienza a un solo gestore significa che l’amministrazione (l’ente appaltante) rischia di essere “catturata” dal proprio fornitore e di subirne la capacità di condizionamento».