Nei giorni in cui l’intera Italia entra progressivamente in quarantena, l’Organizzazione mondiale della sanità dichiara la pandemia e il presidente degli Stati Uniti si dice convinto che vogliano infettarlo di proposito con il coronavirus, come sempre nei momenti difficili, ognuno si aggrappa istintivamente alle proprie certezze e ai propri punti di riferimento. Ed è umano, a suo modo persino consolante, che un tale riflesso colpisca, a tradimento, proprio tutti: le menti più eccelse e gli animi più semplici.
Non può dunque sorprendere che la prima reazione di Matteo Salvini alla minaccia del coronavirus sia stata quella di chiedere immediatamente la «chiusura dei confini» e di impedire «ogni sbarco» (sebbene, obiettivamente, di cinesi arrivati a remi se ne siano visti pochini), salvo più recentemente indignarsi quando, a seguito dell’epidemia esplosa in Italia, a chiudere i confini sono stati i nostri vicini. Convinto com’era che anche questa occasione sarebbe stata sfruttata da ong e mondialisti per diffondere il virus del buonismo, di fronte all’ignoto, Salvini si è aggrappato al suo cavallo di battaglia, e cioè gli immigrati, proprio come ha fatto Alessandro Di Battista, che appena tornato dall’Iran, trovatosi in mezzo a questo gran casino e non sapendo che dire, se l’è presa con il Mes (probabilmente una nuova polemica sul franco coloniale, oggi come oggi, dev’essere sembrata un po’ troppo anche a lui).
E così, se il 5 marzo, sul Fatto quotidiano, Barbara Spinelli osserva che «ancora una volta si evita di mettere in questione il neoliberismo che alimenta le crisi, finanziarie o sanitarie che siano», il 9 marzo Diego Fusaro riassume un po’ tutte le inquietudini del nostro tempo in un post dal titolo «Mes e coronavirus: è ufficiale, il liberismo ha un nuovo metodo di governo». E la mette così: «Parafrasando Hölderlin potremmo asserire che dove cresce il pericolo lì cresce anche la miseria del neoliberismo».
Di conseguenza non può stupire nemmeno la reazione del filosofo Giorgio Agamben, critico implacabile di tutti i dispositivi repressivi della società moderna, che già il 26 febbraio – su il Manifesto – si era scagliato contro le «frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona». E che ieri, ancora più preoccupato, sentenziava: «È possibile, data l’inconsistenza etica dei nostri governanti, che queste disposizioni siano dettate in chi le ha prese dalla stessa paura che esse intendono provocare, ma è difficile non pensare che la situazione che esse creano è esattamente quella che chi ci governa ha più volte cercato di realizzare». E cioè – tenetevi forte – che «si chiudano una buona volta le università e le scuole e si facciano lezioni solo on line», che «si smetta di riunirsi e di parlare per ragioni politiche o culturali» e che «ovunque è possibile le macchine sostituiscano ogni contatto – ogni contagio – fra gli esseri umani».
Se dunque fosse vero quel che diceva Hölderlin, citato da Heidegger, a sua volta parafrasato da Fusaro, e cioè che «dove c’è pericolo, là cresce anche ciò che salva», dovremmo concluderne che nulla è più salvifico delle nostre ossessioni. O al contrario – e a dispetto di ogni pandemia – con l’antico adagio che recita: la fissazione è peggio della malattia.