Marco Bentivogli, ha visto che il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci lascia chiaramente capire che o si fa come con l’accordo di Genova o «si deve smontare fino all’ultimo bullone». Sembra che il futuro dell’ex Ilva sia davvero in forse, sta saltando tutto secondo lei?
Trovo questa posizione irresponsabile. L’accordo di Genova nacque quando fu spenta l’area a caldo per gestire quella transizione. Più che Genova ricorda Bagnoli, ma non ricordano come andò a finire. Genova da allora è alimentata da Taranto, è chiaro che si parla a vanvera. Bisogna essere chiari ed effettivamente il sindaco lo è: vuole chiudere lo stabilimento. Mi sembra tuttavia una posizione tattica perché ha la finalità di far saltare il pre-accordo tra Governo, Ilva in amministrazione controllata e Arcelor Mittal. Si vuole forzare la mano per invocare da parte dell’azienda o amministrazione straordinaria un ennesimo ricorso al Tar e allungare il brodo affinché non si disturbi la campagna elettorale di Michele Emiliano. Questa è la verità. Anche Melucci sa che non gestirebbe 15.000 nuovi disoccupati in un’area che ha il doppio della media europea di disoccupazione giovanile. Poi non chiediamoci più perché Arcelor Mittal, o in generale gli investitori considerino questo paese non affidabile a partire dalle sue istituzioni.
L’emergenza Coronavirus complica ulteriormente il quadro. È possibile che la questione dell’ex Ilva venga sospesa, rinviata a tempi migliori?
La questione dell’ex Ilva non ha subito al momento alcuna variazione a causa dell’emergenza sanitaria. Entro il 6 marzo è previsto il cosiddetto pre-accordo. Mi sembra che l’unico virus al momento sia la volontà delle istituzioni locali di far saltare tutto. Istituzioni che avevano il testo della possibile intesa mentre il sindacato fino ad oggi non è stato coinvolto e immaginiamo lo sarà a valle del pre-accordo. Abbiamo perso anni e intanto l’acciaio per fare le auto, le navi e gran parte dei prodotti che usiamo o esportiamo lo importiamo da Germania e Turchia. Lo dico sempre: i sovranisti italiani sono anomali, sono per la sovranità industriale dei nostri rivali commerciali.
A proposito del pre-accordo, su Linkiesta abbiamo scritto che nel governo ci sono idee diverse e che ministri come Boccia e Provenzano hanno un approccio non molto diverso da quello del sindaco di Taranto. La sua opinione sul possibile accordo qual è?
Le indiscrezioni che circolano sul contenuto mi sembrano assolutamente discutibili. Secondo me togliere lo scudo penale, fare di tutto dopo la sconfitta delle Europee per mandare via Arcelor Mittal e poi di nuovo fare di tutto per trattenerla usando però denaro pubblico per compensare il disimpegno parziale della multinazionale è una schizofrenia che pagheranno i contribuenti e i lavoratori. La decarbonizzazione rischia di essere uno slogan, come la tutela occupazionale. I numeri dei lavoratori previsti dal nuovo piano sono ridotti. Il nostro accordo del 6 settembre 2018 garantiva ambiente, occupazione e rilancio industriale. Inoltre, non comprendiamo la logica che sottende l’inserimento dei due forni elettrici. Mi chiedo a quale scopo.
Ritorno sull’emergenza del Coronavirus che è destinata in ogni caso a mettere in discussione le tradizionali forme di lavoro. Lei sul Messaggero ha sostenuto che cambieranno il lavoro e le filiere globali, cosa intende?
Questo virus fa capire che siamo molti di più a vivere su questo pianeta, che siamo molto più interdipendenti. Fa ridere chi dà la colpa al mondo aperto e alla globalizzazione. Nel 1300 la peste nera partì dalla Cina e fece sparire un terzo della popolazione europea. Chi vede nel mondo aperto la nostra vulnerabilità sbaglia di grosso. Quel che è certo è che la sicurezza del nuovo mondo non può avere le paratie del Novecento. Altro discorso è quello della strategia industriale: filiere troppo lunghe nei settori industriali strategici sono esposte a troppi rischi di stallo. Basta un qualsiasi problema geopolitico a paralizzare le produzioni. Disastri climatici, epidemie, conflitti politici rendono fragili le catene globali. La sostenibilità senza sceglierla si imporrà come sinonimo di solidità. Però, pensando a casa nostra, significa saper scegliere le produzioni strategiche, investire su quelle e non disperdere nel globo la loro capacità di funzionamento.
L’industria italiana è al passo con queste novità sconvolgenti?
Innanzitutto c’è un problema culturale: le imprese sono state colte alla sprovvista sulla questione smart-working per pigrizia. Da anni la Fim Cisl evidenzia che la cultura aziendale parla con linguaggio attuale solo nei convegni e l’innovazione di visione si ferma fuori dai cancelli. Il rischio è un telelavoro mal organizzato. Ma comunque adesso il tema si è aperto. Non si può pensare di risolvere solo ricorrendo alla cassa integrazione e ai sussidi a pioggia sfruttando la retorica dell’emergenza continua.
Perché dice questo?
Primo perché è falso, secondo perché è un’auto-ammissione di miopia e di incapacità di pianificazione. E nelle grandi trasformazioni chi non si muove d’anticipo e non progetta, soccombe. Ma sono servite tragedie come il crollo del ponte Morandi e il coronavirus per accorgersi quanto il mondo del lavoro sia cambiato e che la logica del capo del personale che controlla i suoi dipendenti, confondendo la presenza con la produttività, non fa bene a lavoratori e a produttività contemporaneamente. Perché la gerarchia che esercita controllo sullo spazio e il tempo di lavoro è figlia di una logica fordista ormai superata che non garantisce più una competitività di alta fascia e non investe sul benessere dei lavoratori, che non è un lusso ma un ingrediente di produttività.
E il sindacato in tutto questo?
Quando 4-5 anni fa iniziai a parlare di smartworking ci fu una reazione, purtroppo anche di parte del mondo sindacale, di chiusura. Gridarono “difendiamo le otto ore”. Allora come oggi credo che la bandiera della libertà di orario sia da impugnare saldamente.
Nell’emergenza attuale – lo ha scritto Dario Di Vico – gli operai del Nord si stanno chiudendo portando con grandissimo senso di responsabilità e anche di sacrifico. Qual’è la strada da seguire, Bentivogli?
Oggi abbiamo diversi problemi principali: evitare le situazioni di promiscuità che generano contagio, però da applicare soprattutto alle zone rosse; problemi nell’utilizzo della cassa integrazione per chi lavora all’interno della zona rossa e la cui azienda è chiusa; capacità di tenere l’azienda aperta anche nel caso di un contagiato; infine c’è il problema più grande, quello delle aziende che iniziano a chiudere a causa dello stop delle forniture provenienti dalla Cina, dalle minuterie metalliche ai componenti di microelettronica, causato in primis dal blocco aereo che è inutile se non viene messo in atto da tutta Europa e senza bloccare i voli indiretti. Il blocco delle merci dalla Cina, quando si tratta di circuiti integrati per l’automotive, non capisco che senso abbia. La scorsa settimana abbiamo elaborato un comunicato congiunto con Federmeccanica ma le ripercussioni economiche rischiano di durare diversi mesi.
Cosa dovrebbe fare il governo?
Le prime misure prese dalla politica hanno riguardato le gite scolastiche e gli stadi, dopodiché si è parlato subito di sussidi, invece che pensare a riattivare immediatamente le forniture. Il blocco commerciale ha dato enormi problemi in Italia rispetto ad altri paesi. L’interdipendenza globale delle produzioni oggi presuppone una grande capacità di analisi e non possiamo avere al governo dei ministri inconsapevoli del funzionamento le fabbriche globali e le loro supply chain. Il risultato è che queste problematiche investono solo il Lombardia 21.380 lavoratori metalmeccanici in 149 imprese interessate. Nella sola zona rossa lombarda 2.800 lavoratori metalmeccanici a casa per chiusura delle loro imprese. La paralisi di Mta proprio a Codogno rischia a breve di bloccare alcuni grandi stabilimenti italiani del Gruppo Fca in tutta Italia. Speriamo che da questa crisi se ne esca con cittadini che comprendono che le incompetenze dei loro rappresentanti fanno danni che ci vorranno decenni a riparare e si torni a valorizzare le capacità e l’impegno. E che per problemi complessi servono soluzioni nuove e complesse.