Uniti nelle diversitàGli Stati europei non si mettono d’accordo su come salvare l’eurozona

Oggi la terza videoconferenza in poche settimane tra i 27 leader dell’Unione per capire come rispondere alla crisi. Mario Draghi scrive una lettera aperta al Financial Times: «La risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico»

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Gli Stati europei non riescono a mettersi d’accordo su come salvare insieme la loro economia dal coronavirus. Oggi i leader dei 27 Stati Ue si riuniranno per la terza volta in tre settimane in videoconferenza per decidere quali strumenti finanziari usare per uscire dalla crisi. Per ora le opzioni sul tavolo del Consiglio europeo sono due. Primo, creare delle obbligazioni di debito pubblico condivisi da tutti i Paesi per finanziare le spese da sostenere, i cosiddetti “coronabond”. Secondo, permettere ad alcuni Paesi di ricorrere al prestito del Meccanismo europeo di stabilità, l’organizzazione intergovernativa creata nel 2011 per aiutare gli Stati dell’eurozona in caso di crisi finanziaria o default. 

Per mettere pressione in vista della negoziazione di oggi, nove capi di governo tra cui Giuseppe Conte, Emmanuel Macron e Pedro Sanchez hanno inviato mercoledì una lettera al presidente del Consiglio europeo, chiedendo formalmente di emettere i coronabond. «Dobbiamo lavorare su uno strumento di debito comune emesso da una Istituzione dell’Ue per raccogliere risorse sul mercato sulle stesse basi e a beneficio di tutti gli Stati Membri, garantendo in questo modo il finanziamento stabile e a lungo termine delle politiche utili a contrastare i danni causati da questa pandemia». Il documento è firmato anche dai leader di Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Grecia, Portogallo e Slovenia, segno che l’alleanza politica per gli Eurobond si è allargata. Il problema è che mancano 18 Paesi e senza il loro assenso il Consiglio europeo rischia di essere un nulla di fatto. 

Ci sono almeno tre Paesi Ue che si opporranno alla creazione di coronabond: Germania, Paesi Bassi e Austria. Il ministero dell’Economia tedesco, Peter Altmaier ha detto in un’intervista ad Handelsblatt che la discussione sui coronavirus è un Gespensterdebatte, un dibattito fantasma. Il governo tedesco è convinto che basterà il suo piano di stimoli da 550miliardi di euro per risolllevare la sua economia e di conseguenza l’eurozona. La speranza è che l’efficacia delle misure per le imprese tedesche possano tracimare aiutando i Paesi limitrofi e il resto della catena del valore europeo. Un’idea che nella migliore delle ipotesi potrebbe avvantaggiare solo l’economia dell’Europa centrale, aiutando anche i Paesi dell’Est che hanno forti relazioni commerciali con Berlino e Amsterdam. Ma è difficile che possa bastare per tutti i 27.

Il governo tedesco sembra voler assumersi il rischio e di farlo nei tempi giusti come  ha ribadito mercoledì con altre sfumature il vice cancelliere Olaf Scholz, in un’intervista a Bloomberg: «Abbiamo tutta la potenza di fuoco di cui c’è bisogno e la useremo». L’intervento dovrà essere «tempestivo, mirato e temporaneo», ma non subito, solo quando l’epidemia sarà passata. «La questione dello stimolo (economico, ndr) arriverà quando staremo attraversando la crisi».

E per tutti gli altri? C’è il Mes. Una opzione che piace ai Paesi del Centro-Nord Europa  perché la restituzione del prestito sarebbe tutta a carico degli Stati richiedenti, e non piace a Italia e Spagna perché per accedere al fondo dovrebbero sottoporsi a delle condizioni dure, tra cui una invasiva vigilanza dei creditori nei conti pubblici, come previsto nei trattati.

Per questo gli Stati del Sud chiedono almeno di poter accedere al Mes, senza condizionalità alcuna o che possano richidere i 410 miliardi a disposizione tutti gli Stati membri per evitare speculazioni specifiche da parte dei mercati. Un compromesso potrebbe essere l’accesso alla linea di credito “potenziata” (enhanced) riservata ai Paesi più virtuosi (Eccl) con condizioni meno dure rispetto ai precauzionali (precautionary) riservati a chi sfora i parametri del Patto di Stabilità. 

Le opzioni sono queste e senza Eurobond, Italia e Spagna dovranno accettare la condizione meno dolorosa se non vogliono far saltare i conti. A differenza della Germania non possono mettere in campo un piano da 550 miliardi di euro, ma neanche i 300 miliardi previsti dalla Francia. ««Anche se lo Stato Italiano trovasse investitori che finanziassero 300 miliardi di titoli di Stato Italiani in più di quelli già emessi, il problema sarebbe riuscire poi a rimborsarli. La Germania ha un debito pubblico inferiore al 60% del prodotto interno lordo e può indebitarsi per 550 miliardi, l’Italia no, perché il suo rapporto debito pubblico/Pil è del 134%. Quando mai potremmo rimborsare un debito che già oggi è oltre 2 trilioni di euro?», spiega Loriana Pelizzon professoressa di Politica Economica all’Università Ca’ Foscari di Venezia e di Finanza alla Goethe University di Francoforte.

«Per fare in modo che il sistema produttivo possa continuare a funzionare quando finirà questa crisi non basteranno i singoli interventi statali nazionali. Serve un’intervento a livello europeo che riduca le asimmetrie o quando usciremo da questa crisi le economie più forti diventeranno ancora più forti e quelle più deboli ancora più fragili», spiega Pelizzon. Il rischio è che salti la zona euro. «Se ci sarà una grossa differenza tra i finanziamenti di capitale a livello nazionale tra gli Stati del Nord Europa gli Stati del Sud Europa che questi capitali non li possono fornire, come Italia, Spagna e Portogallo, ci troveremo una disparità talmente elevata nel sistema produttivo a livello europeo che avere una moneta unica non sarà più sostenibile. Per questo anche gli Stati più virtuosi dovrebbero avere tutto l’interesse ad aiutare quelli con più debito».

L’ex presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, è intervenuto nel dibattito con una lettera pubblicata mercoledì sera dal Financial Times: «Di fronte a circostanze impreviste, un cambiamento di mentalità è necessario in questa crisi come lo sarebbe in tempi di guerra. Lo shock che stiamo affrontando non è ciclico. È chiaro che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato – e qualsiasi debito accumulato per colmare il divario – deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato».

Una presa di posizione forte da parte del fautore del whatever it takes che propone alle banche di prestare rapidamente fondi a costo zero alle società disposte a salvare posti di lavoro. «La domanda chiave non è se ma come lo Stato dovrebbe mettere a frutto il proprio bilancio. La priorità non deve essere solo quella di fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo innanzitutto proteggere le persone dalla perdita del lavoro. In caso contrario, emergeremo da questa crisi con un’occupazione e una capacità permanentemente inferiori, poiché le famiglie e le aziende lottano per riparare i propri bilanci e ricostruire le attività nette. Il costo dell’esitazione può essere irreversibile».

Il problema non è solo di disparità degli interventi. Non possiamo pensare di risolvere questa crisi solo indebitando ancora di più le imprese o emettendo degli Eurobond. Serve un giusto mix di debito e di capitale azionario. Un gruppo di economisti olandesi, tedeschi e italiani ha pubblicato una proposta congiunta di policy per uscire dalla crisi in modo da non compromettere il futuro dell’Unione. Ovvero creare un fondo ad hoc in grado di fare degli interventi di capitale a rischio per tutti i paesi europei, e far sì che gli interventi nei singoli Stati nazionali vengano coordinati a livello comunitario. Tradotto: erogare finanziamenti a tutte le imprese europee con gli stessi criteri nei diversi paesi europei non solo sotto forma di debito ma anche sotto forma di capitale azionario. Questo capitale verrà poi remunerato con i dividendi o la vendita delle stesso capitale azionario sul mercato quando queste aziende produrranno reddito in futuro. Un finanziamento che non potrebbe fare il Mes per la sua struttura, ma che potrebbe incominciare a fare la Banca europea degli investimenti, agendo in modo simile alla Cassa Depositi e Prestiti con alcune aziende italiane.