Nostalgia del lunedì Cronaca di un weekend a casa, sul balcone e in fila contro il virus

Appuntamenti inutili, incombenze superflue, chat sceme e tante colazioni, pranzi, merende e cene. Ma del resto che altro abbiamo da fare, oltre a chiedere al farmacista lumi sul Tocilizumab?

Andreas SOLARO / AFP

Bastava andare a fare la spesa sabato, alle 18, e mettersi in fila. Una fila dilatata nello spazio: almeno due metri uno dall’altro, persino impacciati per questa improvvisa lontananza.

E dilatata nel tempo: almeno 60 minuti di attesa che nemmeno nell’Unione Sovietica piu buia. Quell’ora, le sei, come da mantra su tutti i social, è l’ora del balcone.

In Italia evocare il balcone non porta mai bene, ma qui è diverso. Sono balconi canori, inoffensivi. Un classico italiano, scriveranno tutti i giornali esteri, guidati dal New York Times, in cerca di stereotipi. Alle 18 in punto tutti a cantare Azzurro.

Ci sono i palazzi più organizzati. Quelli meno. Ci sono quelli che portano fuori le casse. Quelli con la fisarmonica. I tamburi, i tamburelli, i putipù. I sax, le trombette e i flauti traverso. Una orchestra affacciata alla finestra. Per annegare le paure in una immensa ballata condominiale.

Il problema, un po’ per tutti, è che a volte le parole sfuggono. La cosa era evidente venerdì, quando bisognava cantare l’inno nazionale. Di “Fratelli d’Italia” di solito sappiamo solo la prima strofa. La memoria di vecchi e vittoriosi mondiali (dove avevamo fatto qualche sforzo in più) non ci aiuta. Al primo “Italia chiamò. Sì!” ci inceppiamo inesorabilmente e andiamo avanti con un patriottico na na na na na… anche perché nessuno vuole fermarsi.

E così il karaoke globale va avanti per un intero quarto d’ora. Si passa presto alle canzoni dialettali (ognuno ha le sue, ma prevale “o surdato innamorato”) e si finisce con i cori da stadio. Tanto gli stadi veri sono chiusi. Ecco, il pallone: mentre siamo in fila per la spesa e ascoltiamo i cori, qualcuno scrive su Instagram: avete riempito di soldi i calciatori e dato mille euro al mese ai biologi ricercatori. Adesso fatevi curare da Ronaldo.

Eppure, meno male che ci sono i social: demonizzati per anni, sono diventati compagni indispensabili. Sono utili persino le chat dei vecchi compagni di scuola dove si segnalano puntuali tutte le idiozie della rete. Ma proprio tutte. Tipo il negoziante che lascia un biglietto sulla serranda abbassata: «Dio ci ama». E qualcuno che aggiunge un post it: «Pensa se gli stavamo sul cazzo!». A volte chi le posta, queste robe, non le capisce nemmeno. Eppure servono comunque.

Internet ti riempie la giornata, magari con appuntamenti inutili (a mezzogiorno batti le mani, alle 18 canta Azzurro), ma te la riempie. E poi la rete fa venire fuori, finalmente, il nostro eterno nazionalismo: siamo meglio noi!

Hai visto i francesi che cretini? Pensavano di cavarsela. Guarda Carla Bruni che ride del Covid, mentre alla fine chiudono tutto anche loro. E gli inglesi? Gli inglesi che con quel matto di Boris danno per spacciati i loro vecchi? Ma li avete visti. Le nostre pagine allora si riempiono di bandiere (di nuovo i ricordi dei mondiali).

Persino Donald Trump interviene nella questione e posta un video delle frecce tricolore con colonna sonora “nessun dorma” (Turandot di Puccini): “All’alba vincerò”. E finalmente anche il presidente americano, fino a ieri scettico, fa la sua scelta di campo e viene dalla nostra parte.

In fila per la spesa si tira tutti un sospiro di sollievo, mentre la musica è finita e si avvicina un ferreo addetto ai controlli che distribuisce guanti di plastica (quelli per la verdura) da indossare obbligatoriamente, anche se le nostre mani ormai sono pulitissime, lavate pilatescamente decine di volte al giorno. Persino la mia nipotina, 5 anni, canta la canzoncina “le mani, le mani, dobbiam lavar le mani”, insegnata dalla maestra, rigorosamente via Skype.

La mascherina però no, non l’abbiamo ancora tutti. Anzi. Non la hanno i farmacisti, i medici, ma quelli che vanno a fare la spesa sì. Anche perché, se no, l’uomo “gestapo” del Supermercato non ti fa entrare. Chi ce l’ha la indossa persino con un po’ di compiacimento, come se dovesse entrare in una camera operatoria.E quando la si mette, si ha la sensazione che nessuno ci riconosca. Uomini mascherati alla lotta contro i virus.

Che poi chi dovrebbe riconoscerci? Tranne quelli in fila che tanto sono lontani e hanno gli occhi incollati sul cellulare (le chat dei compagni di scuola) non c’è nessuno per strada. E ci mancano tutti da morire. Anche quelli che a quel semaforo, lì davanti, fino a venti giorni, fa ci facevano aspettare una ventina di minuti, incolonnati.

Gli unici che si ostinano, con una loro dignità, sono i proprietari di cani. Pastori, bassotti, levrieri. Costretti dai padroni ad uscire di casa più volte al giorno, come se fossero diventati incontinenti all’improvviso (girano le solite meme di cani in affitto a 10 euro per un giro). Cani contesi, dissetati oltremisura, e sollecitati per strada, a far vedere che non si è in giro per un capriccio ma per sacrosanti bisogni corporali.

Fatto sta che la spesa, dopo una lunga fila, è rapida. Le liste sono state compilate di solito seguendo i libro di ricette della Parodi o della prova del cuoco. Tanto c’è tutto il tempo per provare un timballo di tofu e stracchino o un hamburger di pollo e guacamole.

Si paga, meglio con la carta, e si saluta. Saluto un po’ imbarazzato e romano. Via tutte quelle smancerie bizantine, le strette di mano, gli abbraccioni, i bacini.

Ce ne andiamo carichi di spesa superflua e di speranze, pronti a mangiare come se fosse una eterna Pasqua di resurrezione. Anche perché altrimenti che facciamo? Quindi colazione, merenda, pranzo, te’, cena. Mancano solo gli spaghetti di mezzanotte. Ma siamo solo alla prima settimana. Ognuno per la sua strada. Ognuno verso il suo balcone. Verso casa.

Quella casa che, secondo l’Istat, l’80 per cento delle famiglie italiane ha di proprietà e che adesso tutti trovano all’improvviso troppo piccola. Anni di mutui sulle spalle e alla fine tutto qui.

L’ultima tentazione, se proprio ci deve essere, è la farmacia. Non per sapere se è arrivata l’amuchina, ma per chiedere della nuova cura che viene da Napoli o da Wuan (non si capisce). Il Tocilizumab. Impronunciabile. Eppure lo mandiamo tutti a memoria. Un sofisticato farmaco per l’artrite reumatoide che combatte le infiammazioni, causa delle polmoniti da corona virus. Così solo per sapere dal farmacista se ne ha sentito parlare. Perché in fondo è la loro rivincita. I farmacisti: trattati adesso come oracoli viventi. Quelli che a novembre offrivano il vaccino per la normale influenza e in molti alzavano le spalle: “Ma per carità, non ce n’è proprio bisogno.”

E alla fine, a proposito: i no vax, quelli duri e puri, dove sono finiti? Siete in fila al supermercato? State anche voi cantando Azzurro? Rientrate a casa carichi di tofu? Venite fuori! Tanto il vaccino non c’è, e se lo troviamo, non ve lo diamo.

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